Friday, October 27, 2006

Chi ha bisogno di un altro Gangster?



Un ragazzino chiede a suo padre: "Papà, l'hai visto The Departed?" E il papà risponde soltanto con un ghigno compiaciuto.

Questa è quello che potrà succedere tra quindici anni, quando The Departed sarà stato già da tempo consegnato alla storia. Il Pardino, C'era un volta in America, Scarface, Casinò, Donnie Brasco, Quei bravi ragazzi: questa è più o meno la timeline del genere, con le sue Colonne d'Ercole, più ad ovest sta tutto il resto. The Departed, per la sua grandezza, sembra, a malincuore, il loro epitaffio. Sembra chiudere il circolo virtuoso dei grandi gangster, con la sua morale, per la prima volta davvero nichilista. Gli italoameriani, da sempre riconosciuti come unica alternativa digeribile della malavita, per il loro meraviglioso essere mammoni e spensierati, per la loro ricerca del benessere, della Cadillac bianca e delle bionde, lasciano il passo agli Irlandesi di South Boston. The Departed scortica la morale della malavita, qui non c'è rispetto, protezione, organizzazione, gradi, amore per il potere. Non c'è nessun senso estetico nel gesto, nessuna teatralità, nessuna posa. Tutto è mosso dalla grande mamma, Boss Costello, che agisce secondo il suo innato e viscerale amore per l'atto criminale. "Frank, perchè lo fai? Soldi e fiche non ti mancano"... "Lo so che non mi mancano, ma è da qundo ho rubato i soldi della menenda, alle medie, che lo faccio..." Nessuno lo rispetta davvero, tutti lo temono. Lui paga poco i suoi scagnozzi, non regala agi e visibilità come faceva Vito Corleone. I film di Mafia sono sulla famiglia, su Dio, sul rispetto, sulla teatralità, il vanto e la ricchezza: le corde italiane, insomma. The Departed, come suggerisce il sottotitolo, è sul bene e il male. Ma dove sta il bene? Si chiederanno in molti. Il bene sta nell'onestà e nell'integrità, davvero stupefacenti, che tutti i protagonisti tengono durante tutto l'interccio di doppi e tripli giochi, che ripiegano talmente tanto su loro stessi da annullarsi. Ad un certo punto, proprio per questa ritorsione di vizio e di forma, razionalmente, il teatrino di Costello dovrebbe cadere, ma non è così. Quello che è davvero stupefacente è l'integrità e la coerenza di personaggi, oramai smascherati, che perseverano nell'essere leali nei confronti della maschera che portano. Non sono nmai davvero leali nè mai davvero sleali. Ma è una questione di punti di vista. I departed, quelli che non ci sono più, che se ne sono andati, senza rimorsi, perchè sapevano il trapasso era la moneta di scambio per appagare al loro fame di male. I departed sperano che il bene, per contro, li coccoli lassù, visto che quaggiù si è tenuto alla larga da loro.

Scorsese ha avuto la buon'anima di consegnarci il passaggio di consegne tra due generazioni di grandi interpreti. Quando ho visto, per la prima volta, Jack Nicholson e Lonardo DiCaprio seduti allo stesso tavolo, ho avuto un brivido. Ho pensato che il cinema non dovrebbe mai essere altro da questo.

Il detective a Boss Costello: "..e adesso dove credi di andare, Frank?"

"...vogliate cusarmi, signori, devo andare a vedere gli angeli.."


Passerà molto tempo prima che qualcuno senta il bisogno di un altro film sui gangster, credetemi.

Tuesday, October 17, 2006

New York Wears Prada


Ieri sera ho visto The Devil Wears Prada, metà in inglese, metà in italiano. Inutile dire quale parte è stata più gradevole. E' divertente, accurato, lievemente parodistico. Le ragazze godranno per le scarpe di Jimmy Choo e Manolo Blahnik, che finalmente hanno della giusta centralità nella causa umana; si commuoveranno per i buoni sentimenti e si consoleranno quando il film suggerirà loro di lasciar perdere il dorato mondo della moda (morale vigliacca per lasciare un po di speranza a tutte quelle che non ce l'hanno fatta, e non ce la faranno mai). I maschietti piu curiosi invece si divertiranno nello scoprire sfumature nuove-ma-non-troppo del circo della moda e nell'ammirare la straordinaria bravura di Maryl Streep, che non imita Anna Wintour, ma addirittura le suggerisce come comportarsi. Del film non si parlerà che per qualche settimana, forse sarà ricordato soltanto per l'esordio di Anne Hathaway, che, se ci mette un po di piglio in più, può non scoraggiare l'attesa di una nuova Julia Roberts.

Ben più interessante invece è la discussione che nasce dai presupposti reali, culturali, effettivi che animano The Devil Wears Prada. Da indefesso lettore del Foglio di Giuliano Ferrara, non ho potuto fare a meno di segiure con attenzione lo spazio dedicato ad una breve anticipazione del libro di Mauro Suttora "No Sex in the City" (Cairo Editore). Il libro analizza, attraverso esperienze personali, come stanno effettivamente le cose nell Upper East Side. Cosa pensano davvero le Diavolesse vestite Prada? Suggerisco uno sguardo al blog di Mauro Suttora. (maurosuttora.blogspot.com)

Per concludere, non ho trovato sexy, nè tantomeno glamour Sex and the City. Non era specchio della coolness di NYC, semmai lo era della sua bramosia riqualificazione agli occhi della vecchia Europoa.

Devil Wears Prada è la naturale progenie di Sex and the City.

Wednesday, October 11, 2006

EYES WIDE OPEN on MIAMI











Cerchiamo di dimenticare per due ore le leggi basilari del buon cinema. La storia è banale, così come le interpretazioni. Dimentichiamo Miami Vice, gli anni 80, i colori pastello, le battute da bullo. Non troverete nulla di tutto ciò, in questo spettacolo sontuoso. Miami è dura, come la Los Angeles di Collateral, corrotta, minacciosa, buia e scintillante. Il vetro lucido dei grattacieli scuri fa da contrappasso alla pastosità delle nuvole che tuonano, senza mai esplodere, senza mai liberare pioggia purificatrice. Il cielo in trepidazione notturna mantiene l’atmosfera sospesa, onirica, spezzata soltanto dalla vernice fresca delle automobili e dai colori sgargianti delle insegne al neon, unico residuo di quel fluo che rese noto il new-deco nella città delle paludi e dei contrasti, etnici e culturali. Fuori da Miami, la Colombia, l’Havana, Haiti, tetti, cieli, cascate, mari, fiumi, ponti, navi, in una meraviglia estetica fatta di carrellate aeree, movimenti orizzontali chilometrici, zoom mai visti. Una chiarezza ed una definizione stupefacenti, grazie al digitale in alta definizione. Una fotografia sublime e vera, che passa con disinvoltura dalla natura all’artificiale, senza subirne danno. Il binomio suono-immagine è indissolubile e struggente, si tengono la mano e si sfumano l’un l’altra, per completare questo viaggio nella perfezione tecnica, dall’aria rassegnata decadente.
Scegliete lo schermo più brillante che potete, sedetevi, respirate, e aprite bene occhi e orecchie, ne avrete bisogno. Questo è uno spettacolo.
Quasi dimenticavo, una volta usciti dalla sala, non spaventatevi se, per la prima volta, avrete la sensazione di non distinguere la realtà dalle immagini che avete appena visto.
E' un effetto collaterale.

Monday, October 09, 2006

Odio Sofia Coppola. (non è vero)


Nella mia newsletter personale del New York Times si legge: “Sofia Coppola’s Paris…this city can change your mood completely…In the Marais, we went to K. Jacques, a tiny shop that specializes in all types of classic leather sandals. The simplicity of the shoes immediately conjured up images of sunning in St. Tropez…”.
Lei è una ragazza bruttina, bruttarella, figlia di papà (per davvero) che, guarda caso, ha deciso di lanciarsi nel cinema. La ricordate, sempre bruttarella, nel terzo episodio del Padrino? Piccola parte per una figlia di papà, appunto. Poi, per molto tempo è scomparsa, non vale niente, la ragazza, era li per caso. Quando papà è andato a riposo non ha avuto più un secondo di celebrità. E allora cosa ci fa adesso, tirata a lucido come una mademoiselle d’antan, nella newsletter più cool del mondo, che descrive minuziosamente i suoi spostamenti nella ville lumière?

Ha scritto, ecco perché. E quanto ha scritto! E come ha scritto! Ha rinunciato presto ad essere Face; piuttosto che rifarsi il naso importante ha preferito rifarsi l’Oscar, alla sceneggiatura, per quel piccolo gioiello di leggerezza che è stato Lost in Translation. Film divenuto un caso soltanto dopo la buona sortita al Chinese Thatre. (a milano era in programmazione soltanto al Cinema President, il più snob, il più raffinato, il più protettivo della città; due mesi dopo è stato dato in pasto agli applausi dell’ultim’ora del pubblico becero dell’Odeon). Ho amato quel film, mi ha ridato fiducia nella scrittura, una storia che non avrebbe avuto nessun bisogno di essere scritta; sta lì la sua grandezza, oltre che in uno splendido controllo delle atmosfere e dei sentimenti; un film sulla vita, sulle piccole cose, sulle sensazioni, sulle relazioni che ci tengono vivi. Quello che va perso nella traduzione è il superfluo, quello che conta si trasmette, eccome. I due erano anime senza un futuro insieme, e lo restano, di buon grado, perché in cambio hanno avuto qualcosa di speciale, indecifrabile, un sussurro di speranza.

I risultati non arrivano mai per caso, Sofia ha sudato, scrivendo, interpretando, producendo, dirigendo, da sola, con Tim Burton, Gorge Lucas, Quentin Tarantino, che le riserva addirittura uno special thanks nei titoli di coda di Kill Bill vol.2. Poi si è sentita pronta, e ci ha dato Virgin Suicides (Il giardino delle vergini suicide) sul cui giudizio preferisco sorvolare, è un’opera di indubbio fascino, ma troppo controversa, crudele e strana per essere presa da sola. Credo che debba essere inquadrata in un’ottica sequenziale, data la sua immaturità e poca immediatezza. Di certo ne resta lo spessore intellettuale. Si capiva chiaramente che la ragazza faceva sul serio.

Eccoci adesso alla terza prova, tra poco vedremo l’ultra-cool Marie Antoinette. Se tre indizi fanno una prova, allora è di questa che c’è bisogno per dare una misura effettiva al talento di Sofia Coppola. Per il momento è dato sapere soltanto che l’accento artistico ha subito una brusca sterzata; il clima patinato e burroso di Lost in Translation lascerà il posto ad un vortice di colori e brilli che ricorda molto il Baz Luhrmann di Romeo+Juliet, nell’intento di mandare a braccetto commedia, tragedia e teen-appeal.

Sofia mi sta antipatica, perché sembra fare tutto con una leggerezza che non è propria delle donne di cinema, che solitamente trascendono in climax da Guerilla Girls. Sembra essere supponente e ancora lì-per-caso. Una incosciente regina del glamour, sopravvalutata per aver fornito soltanto una prova degna di nota.

In realtà non è vero, la sensazione che provo è che ad ogni tentativo potrebbe scrivere, dirigere o produrre il mio nuovo film preferito.

Saturday, October 07, 2006

CI RISIAMO, HITCH.



Esce The Black Dalia e ci risiamo.: “…De Palma si muove in atmosfere Hitchcockiane…bla..bla..”. DePalma non è Hitckock, né tantomeno vuole esserlo, altresì dire che si ispira a lui sarebbe come dire che Norman Foster si ispira a Fidia, è ovvio, sarebbe come negare il valore della tradizione e dell’eccellenza in una qualsiasi arte applicata. La lezione dei maestri non può essere dimenticata perché entra a far parte del registro a disposizione dei posteri. In maniera automatica.

Prima di proseguire vorrei fare un breve ripasso della genealogia: Hollywood ha avuto la sua età dell’oro, dell’innocenza, grandi film, grandi dive, storie corali, destini comuni, poi il mondo occidentale ha perso la sua purezza. C’è stata la rivoluzione culturale, la ribellione, la contestazione e , per forza di cose, il cinema ha trovato nuovi interpreti. Divisi sulle Coste opposte sono arrivati Scorsese, Coppola, Milius, Altman, Lucas, De Palma e poco dopo Spielberg. Questi sono i “ragazzi terribili” che ci hanno traghettato fino a qua, che hanno riscritto le regole, che hanno creato il cinema che guardiamo oggi. Hanno salvato il cinema, per davvero. Le storia sono diventate più dure, più personali, e le tecniche filmiche sono diventate lo strumento chiave, più delle sceneggiature stesse. Hanno raccontato piccole storie di miserabili o narrato epiche avventure di popoli, sono esplosi come meteore, e non sono mai riusciti a dare alla loro opera un equilibrio qualitativo: capolavori o teneri disastri, perché venivano dallo stomaco, dal braccio o dall’occhio, non da teorie programmatiche. E’ appunto per questa “fisicità” che l’indipendenza creativa dei ragazzi è assolutamente innegabile.

Torniamo a noi, l’occhio. Già, De Palma è il più grande voyeur della storia del cinema, dopo Alfred naturalmente. E’ questo che fa di lui non un emule di Hitchcock ma un compagno di merende, un collega di vizio. I loro film non c’entrano un bel niente, le atmosfere, i toni, il registro, gli argomenti, sono totalmente differenti. Hanno in comune l’amore per il “guardare”, nelle altrui vite, nelle altrui stanze, nelle altrui passioni, vizi e segreti. Nascosti dietro il loro occhio spiano, è la loro debolezza. Un esempio su tutti per chiarire il rapporto Hitchcock-De Palma: The Rear Window e Snake Eyes (La Finestra sul Cortile, Omicidio in Diretta). Due omicidi conclamati, apparentemente sotto gli occhi di tutti, all’osservatore sembra di avere la soluzione del caso a costante portata di mano, ma ben presto si rende conto che le cose non stanno così. I due spioni ci tengono maliziosamente in scacco mostrando pian piano soltanto quello che il filtro della logica svela all’organo visivo. E’ la differenza tra guardare ed osservare. Tra il mettere lì ed il montare. Tra un movimento ed un campo lungo. Vogliamo tutti “guardare”? Bene, guardiamo, ma soltanto come e quando vogliamo noi! Controllo, controllo, controllo. E maniera. La cultura del sospetto, l'amore per l'indagine, più fisica che chimica. Meccaniche di tendine veneziane, finestre, serrature, muri, quinte e filtri d'ogni sorta, il cui abbandono a favore dei sentimenti li ha indotti più volte all'errore.
Pensate se Hitch avesse avuto a disposizione quella fantastica Dolly di 15 metri che ha avuto a disposizione De Palma in Snake Eyes, oppure se Snake Eyes avesse goduto di James Stewart e Grace Kelly. (Questo non c’entra niente, ma provate a pensarci lo stesso).


Ecco, in questo senso sono simili, nel vizio, non nella forma. Come lo sono Napoleone ed un bambino che diventa diventa il boss del giardinetto. Dimenticate le proporzioni.

Jacopo Signani