Tuesday, February 24, 2009

The Diamond Overhang.


Questa ve la devo raccontare perché è sintomatica:


Stamattina, ore 9:00: leggo un interessante articolo su IHT dove si illustrano le difficoltà dell'industria dei diamanti non soltanto nell affrontare il downturn della crisi odierna (che ha portato De Beers a ridurre i prezzi del 20% e la produttività delle miniere di conseguenza) ma anche un fenomeno esclusivo di quel settore che si basa su questo principio: tutti i diamanti tagliati nella storia, dalla notte dei tempi, sono ancora presenti su questa terra e questo, come in ogni altro campo, porta ad una sovrabbondanza di materiale che necessariamente ne inflaziona il valore. Questo è il "Diamond Overhang". Un problema non da poco per un mercato che vende se stesso trasmettendo messaggi di "valore infinito" come "Un diamante è per sempre". Il valore delle pietre, quindi, è lontano dall'essere un buon investimento in ottica prospettica.


Stamattina, ore 11:00: leggo un messaggio inoltratomi da un amico su aSmallWorld che da Londra, promuove attraverso il suo network due nuovi fondi di private equity di nicchia: uno a sfondo immobiliare e l'altro - indovinate un po - investirà nel campo dei diamanti (5 e 10 carati) come "safety" alternativa al deposito cash, il cui margine è oggi tristemente basso.


Tutto ciò mi sembra folle.


JS

The February Movie Break: Frost/Nixon, The Curious Case of Benjanim Button, Doubt.


Anche se, come al solito , dopo gli Oscar, il film passerà da "carino" a "meravigliosoooo", mi unisco al coro di plausi per Slumdog Millionaire, film che ho da subito sostenuto ma che, onestamente, non credevo potesse arrivare fin dove è arrivato ieri. Forse l'assenza di grandi rivali ha pesato, ma comunque riadisco che di film come Slumdog Millionaire vorrei vederne uno al giorno. Lasciamo perdere, poi, le sterili discussioni sugli Slum: su IHT, ieri, addirittura si disquisiva sull'urbanistica, la topografia e la microeconomia di Dharavi, il sobborgo che fa da teatro per alcune delle scene del film. Torno a dire che Cinema e documentari non sono la stessa cosa, con buona pace di Jacques Cousteau ed il suo epigono Steve Zissou.






The Curious Case of Benjamin Button (David Fincher): da un regista di culto come David Fincher (che ha prodotto film-feticcio come Alien3, Fight Club, The Game, Seven) era lecito aspettarsi un po di più di una storia particolare (ma "inversamente scontata") e di qualche fantasiosa ambientazione. Il paragone con Forrest Gump è appropriato sì, ma sotanto per evidenziare quanta distanza ci sia tra loro. Se Benjamin Button dimostra tutta la sua cifra di eroe involontario quando ha cervello di bambino in un corpo da vecchio, ci si aspetta di vedere un cervello degno di essere raccontato quando il destino invertirà la proporzioni; invece BB manca non mostra mai altra profondità, rimane un esercizio. E' difficile, poi, imbattersi in una Blanchett così scialba. Ecco perché porta a casa, giustamente, soltanto statuette di ordine tecnico.



Frost/Nixon (Ron Howard): in attesa di tornare a vedere Ron Howard al suo peggio, ovvero quando ci propina quegli insulsi mattoni epico-misterici (Angels and Demons è sulla via delle sale), ecco a voi una chicca presidenziale che stravince il confronto con W. di Oliver Stone. Howadr dirige in modo lineare, senza cadere nella retorica o nella rilettura, raccontando non tanto le vicende dell'audace intervistatore, quanto una battaglia psicologica di dimesione indipendente ai fatti. I due protagonisti (Frank Langella in modo particolare è stato secondo soltanto a Mickey Rourke in The Wrestler) mettono in scena due "mostri da palcoscenico", ricordando a tutti gli aspiranti leader quanto la cura del dettaglio e la misura del pensiero siano fondamentali per prevalere su qualsiasi avversario.








Doubt (J.P.Shanley) : ci sarà pur un motivo se, nonostante due grandiosi interpreti come Meryl Streep (candidata all'Oscar cme miglior attrice) e P.Seymour Hoffman, il film non è stato incluso nella cinquina. Il motivo è che difficilmente capita di annoiarsi così di fronte ad uno schermo. Doubt è un film parlato, recitato, alla grande, sì, ma manca il mordente: la schermaglia ideologica tra il prete e la perfida suora, dopo 15 minuti in cui si è ammirata la loro straordinaria perizia recitativa, sfuma in un mare di ammiccamenti e di ovvietà. Per l'amor del cielo, queste cose fatele a teatro.!








JS

Saturday, February 14, 2009

Il Sorpasso








Ebbene sì, ognuno ha degli angoli bui. Mi duole ammetterlo, ma prima di ieri sera non avevo mai visto per intero "Il Sorpasso" di Dino Risi. Deplorevole? Sì, ma purtroppo non avevo mai avuto l'occasione e mai ero andato a cercarmelo. L'ho incontrato per caso su SKY Cinema Classics in seconda serata, iniziato da due minuti e mi sono detto:"Guardo due scene e me ne vado a letto". Col cavolo, non sono riuscito a staccare gli occhi dallo schermo, mi è volato via talmente veloce che quando è finito ero addirittura innervosito. Complice anche il fatto che, almeno per adesso, SKY non interrompe i film con le pause pubblicitarie, che hanno reso di fatto impossibile guardare film in televisione.

Insomma, sono rimasto abbagliato, quasi senza parole. Come sempre, mi piace distinguere i significati dalla forma, quindi per prima cosa diciamo che "Il Sorpasso" è un film tecnicamente perfetto: veloce, turbolento; come vuole la teoria dei Road Movie non sta mai troppo in un posto solo e, come la splendida Lancia Aurelia che porta a spasso i protagonisti, corre forte attraverso i luoghi fisici e psicologici che Risi utilizza come lente d'ingrandimento per mettere a fuoco quell'Italia piaciona e disillusa che si preparava a vedere infranti i sogni del boom economico. La perfetta alchimia (fisica e chimica) tra Gassman e Tritignant e la visuale doppia che offrono permette di virare di continuo le situazioni ed i suoi punti di vista. La straordinaria caratterizzazione dei personaggi di contorno, fatta così, d'impatto, con una velocità ed una pregnanza sorprendenti, fa si che sia impssibile annoiarsi. Forse è proprio questa capacità di sintesi la cosa che mi ha sorpeso di più: Risi non spende mai una parola o un'inquadratura in più , perchè, è ovvio, la ridondanza non è proprio una virtù in quanto ad arte cinematografica. L'intorno è talmente ben definito che vive con i protagonisti della vicenda, sfiorando il documentarismo in alcuni passi (le danze in particolare) e facendo di sé il vero punto di forza del film.
Impossibile, poi, non notare le radici di quella vergognosa commedia italiana odierna: Christian de Sica si muove e parla come Gassman, l'attempato e ricco fidanzato della figlia parla come Nicheli nella celebre macchietta-Zampetti; l'impressione e che questa sia la madre di tute le commedie italiane ed è davvero stupefacente vedere come lievità e dramma possano convivere in un'opera asciutta, forte, a tratti epica come questa. Un'opera che traccia con eccezionale lucidità le ragioni della genesi della crisi morale che, da lì a poco, avrebbe aggredito l'Italia e i suoi costumi senza lasciarla mai più. Lo scontro tra la vecchia borghesia rurale, la neo industrializzazine del nord-italia, la cafoneria, il cinismo, il vuoto edonismo, lo smarrimento, le ambizioni della rafforzata classe proletaria, qui al suo principio, ci ricorda che il nostro Paese da allora proprio non è cambiato.

Nota a margine: non oso immaginare i turbamenti che creò la lolitesca Catheine Spaak negli animi degli italiani. Era di una bellezza travolgente.



JS





Monday, February 09, 2009

Voila, Monsieur Arnault!




Guardate questo breve video, da "Supreme Luxury: Moscow 2007", e fatevi due risate. Sebbene risalga a poco più di un anno fa, quando il credit crunch cominciava a palesarsi, il benemerito Sig. Arnault (presidente e fondatore del gruppo LVMH) qui dimostra una "vaga" miopia, sostenendo che l'uppper-end del mercato, quella servita dai brand LVMH, sarà soltanto "slightly affected by this crisis", sbagliando non soltanto a livello premonitivo, ma anche, a mio avviso, nella definizione stessa di lusso. Sono stati proprio i brand "aspirazionali", infatti, ad essere più colpiti dal calo dei consumi, quei brand di cui il portafoglio LVMH è pieno, quei brand i cui profitti sono storicamente alimentati dai consumi della classe medio-alta oggi in crisi profonda, di identità e di potere d'acquisto. I saldi senza precedenti applicati dai negozi LV ne sono lampante testimonianza. Uno dei primi paradigmi a cadere durante questa crisi sarà l'assimilazione dei brand aspirazionali (Gucci, Armani, Dior ecc..) all'universo dell'absolute luxury. Fino ad oggi il calderone del high-end ha accolto troppi ospiti ingiustificati, che hanno mostrato soltanto bran identities "pompate" come lasciapassare e così facendo hanno raccolto i favori di quella borghesia che amava vivere al di sopra delle propre possibilità, cercando conforto in questi brand di largo riconoscimento sociale.


Il lusso vero, invece, quello di Hermès per esempio, non conosce crisi, forte del suo reale plus in termini di storia, artigianato, valore intrinseco. Il lusso, in quanto a prodotti, non può comprendere articoli che si esauriscono, che necessitano di furibonde logiche di sostituzone semestrale per essere giustigficate e restare "alla moda". Il lusso, domani, tornerà a correre su due binari: commodities di ottima qualità al prezzo giusto (da sostituire spesso) e pezzi di grande pregio, dal sapore senza tempo, da portare con sé per una vita, dove il prezzo sarà molto elevato, ma anche molto giustificato. Vi siete mai chiesti perché sono proprio le persone con maggiore potere d'acquisto e con maggior consapevolezza culturale ad essere quelle meno avvezze al consuno di brand di lusso aspirazionale? E' semplice, perché quello non è lusso, è stress. Quelle persone, che conoscono davvero il lusso, sanno bene che il privilegio non sta di certo nell'affannarsi a fare shopping per sostituire la borsa, ormai obsoleta, della stagione precedente. Il lusso sta nella tranquillità di circondarsi di oggetti senza tempo, che non assillano con la loro presenza perché non invecchiano, non imbruttiscono, non si omologano. Qualche indulgenza o apretura verso la moda, poi, non è disonorevole, se fatta con il dovuto distacco psicologico.
Tutti i brand, dall'alto al basso, dovranno ridisegnarsi non attorno alla propria identità presunta, ma attorno ai loro prodotti, al loro prezzi, ai loro contenuti reali. Solo così torneranno competitivi.
Questione più delicata è invece quella attrono al comportamento dei mercati emergenti che, crisi a parte, stanno vivendo l'invasione dei brand così come il mondo occidentale l'ha vissuta 20-30 anni fa. In quei mercati, probabilmente, la scelta migliore sarà quella di mantenere la linea attuale finché anche lì non si esaurirà la febbre consumistica della nuova giovane classe media. Sorge quindi spontaneo riflettere sulle difficoltà che un brand potrebbe incontrare nel tener testa a due diverse, ed opposte, strategie di sviluppo.

JS