Friday, October 29, 2010

Inception. A sympathetic riddle.


A due giorni dagli Oscar ripesco questo scritto mai pubblicato. Il Discorso del Re e' un gran bel filmone, rassicurante e borghese, vecchia maniera. Inception e' un'altra cosa.




La storia del cinema e' fatta di passi di frattura. L'ultimo e' stato The Matrix. L'ultimissimo e' Inception che, pur vivendo nella larga scia di Matrix, ridiscute gli equilibri tra fabula ed intreccio.
Mio padre mi ha detto ultimamente che la prima grande frattura a cui ha assistito e' stata quella tra John Wayne ed Il Laureato, quando cambio' per sempre il modo di fare cinema. Secondo lui Scorsese, Coppola, Lucas, Spielberg e Milius sono stati soltanto evoluzioni. Matrix, trent'anni dopo ha dato il via alla spettacolarizzazione sincopata del cinema: rivoluzione tecnica a ritmi serrati intervallata con pause narrativo/esplicative di carattere epico. In un certo senso Matrix non e' un'esperienza unica ma una serie di esperienze complementari, che possono essere vissute separatamente (ecco perche' Matrix puo' essere visto milioni di volte senza stancare) grazie alla successione stagna tra azione e racconto. La natura epica di Matrix crea pero' un misto di stupore e distanza tra se' e lo spettatore: analizza il nostro mondo ed il nostro destino, non noi stessi.
Il "miracolo", il passo avanti di Inception sta proprio qui, nell'assimilare la lezione di Matrix e portarla al prossimo livello, portando l'azione (l'intreccio) alla fusione completa con il pathos (generato dalla fabula). Semplificando le terminologia si puo' dire che qualsiasi produzione cinematografica si dipana tramite una serie di eventi, piu' o meno a sostegno del messaggio che si vuole trasmettere. L'incastro e la dinamica degli eventi determina l'affezione per la vicenda e la curiosita' che tiene vivo l'interesse immanente. Il messaggio di fondo, il fatto culturale usa gli eventi (nel peggiore dei casi usa invece i dialoghi) per imprimersi e vivere nella storia stessa. Christopher Nolan e' grande sperimentatore di giochi d'intreccio, da Memento a The Prestige ha dimostrato di saperci fare con l'inganno narrativo. Memento e' semplicemente una sfida all'attenzione dello spettatore, l'elemento patetico annega inevitabilmente nella complessita'degli eventi; difficile interessarsi veramente alle sorti dei personaggi in un tale machiavellico gioco di specchi. The Prestige invece e' gia' un passo avanti nel rendere il "quiz' degli eventi funzionale alla drammaturgia, e' il vero epigono di Inception. Piu' di The Dark Knight, meraviglioso esercizio di stile (anche se il realismo da cartolina di Michael Mann e' qui piu' di una semplice ispirazione) ma assolutamente lontano dal filone dei "sympathetic riddles" di cui Inception e' il culmine.
Inception governa con maestria assoluta i dettami narrativi, crea livelli di racconto interdipendenti che si dipanano con una forza ed un ordine miracolosi, creando un trasporto emozionale inconscio e naturale come i sogni. I sogni, lo abbiamo gia' detto, sono l'anima del cinema e specchio dell'anima dell'uomo, del suo subconscio. Noi si sa quando e come comincino, sono un viaggio irrazionale in cui l'inizio coincide spesso con la fine. Il continuum delle emozioni permette di non porsi troppe domande e di non sentirsi colpevoli se non si trovano subito tutte le risposte. 2001 ha fissato questa lezione molto tempo prima, e lo ha fatto in maniera piu' definitiva e sontuosa, liberandosi pero' della responsabilita' di creare un intreccio narrativo che destasse reale interesse per le vicende in maniera scollegata dall'indagine antropologica.
Inception comincia quando si esce dal cinema, quando ci si innamora dell'idea di poter rivivere le nostre emozioni attraverso i ricordi, di poter fissare il nostro mondo passato in una dimensione che esiste soltanto dentro di noi ma che puo' essere anche condivisa. La lezione finale, quella che i ricordi troppo spesso vengono presi soltanto per il loro meglio, e' di una verita' cruda ed evidente, cosi come isolarsi in un proprio mondo immaginario porta necessariamente ad un doloroso distaccamento della realta'.
Inception e' il miglio film della mia epoca. Quella che viene dopo Nichols, Scorsese e Spielberg. DiCaprio e' il miglio attore della mia generazione. Quella dopo Dustin Hoffman e Al Pacino.

JS

Sunday, May 02, 2010

Swatch Colour Codes collection: back to the roots.





Preface [ENG] In the 90's Swatch has put upside down the world of watchmakers by introducing the idea of a light, fashionable, easy to change, full-coloured watch that very soon became an obsession for collectors around the world, representing something very close to what Andy Warhol represented for the art world, but with a very affordable price. After the years of frenzy passed away, Swatch consolidated its market position by a massive brand-shopping strategy, wich has made it the leading watch manufacturer in the world, but at the same time, year after year, its "magical touch" seemed to vanish in favor of an explosion of new, extravagant watch ranges made of iron and other materials. Just like me, a crowd nostalgics have long waited for a serious comeback of the brand, with a collection that brings back some of the old spirit: simplicity, colour, and an impressive fashion appeal. Swatch, this spring, succeded. In stores now you see again people chasing for their object of desire: a brand new "Colour Code" watch. I am sure that this summer they will be a huge hit, reviving a brand that has waited too much to rediscover himself but has finally found this force digging deep in what once made it a breakthrough story.

Erano i primi anni '90 e vivevo per loro. Avevo poco più di 10 anni e da bravo bambino viziato ne possedevo a centinaia. E non sto scherzando. Le prime sensazioni di potere le ho percepite quando andavo alle mostre-mercato, piccolo piccolo, con le mie valigette piene di orologi di plastica e talvolta capitava che uomini adulti mi pregassero di accettare la loro offerta per qualche pezzo pregiatissimo, che io avevo e loro invece no. Le collezioni correnti le compravo tutte, d'ufficio. Poi c'erano gli "speciali", quelli mi arrivavano dalla Svizzera, Lugano o Ginevra: i miei nonni, da bravissimi nonni, non tornavano mai a mani vuote. Avevo anche l'impareggiabile "numero 1", il primo prototipo, quando ancora il font del logo era diverso, era stato un regalo di Marina Bulgari al mio nonno. Lui non me lo aveva mai regalato il "numero 1" perchè rappresentava l'inarrivabile, come la monetina numero 1 poer Zio Paperone. Mi permetteva di andare a vederlo, ma non potevo unirlo ai miei. Forse non esagero se dico che a 12 anni ero un influente collezionista, quantomeno nella mia area ero un piccolo riferimento per gli orologiai. Tanto per darvi un'idea avevo 3 Happy Fish quando la gente era disposta ad uccidere per averne uno. Di molti modelli importanti ne avevo due pezzi: uno per me ed uno da scambiare a peso d'oro.
Li amavo quegli orologi, li amavo a tal punto che quando la combinavo grossa mia madre sapeva benissimo come farmela pagare: "Jacopo, portami subito giù tutti gli Swatch! Sono sequestrati finchè non ti comporti bene". Già, sequestrati, perché io passavo letteralmente le giornate guardandoli, classificandoli, esponendoli e divertendomi a disegnarne di miei. Avevo creato un piccolo mondo attorno a loro, ideavo nuove campagne pubblicitarie, progettavo nuove, immaginarie serie. Forse è stato lì che ho capito che da grande mi sarei occupato di strategia di prodotto. Prendevo la cosa molto, molto seriamente. A lungo ho sognato di lavorare per il Signor Nicolas G. Hayek, l'uomo che ha trasformato una provocazione in un impero. Poi sono arrivati i motorini e la pallacanestro.



Di colpo mi sono distaccato da quella fortissima passione puerile. Loro sono rimasti lì, nelle loro scatole, tutti nuovi, tutti rigorosamente senza batteria. Per quindici anni non ho più indossato un Swatch, ma ho continuato a provare quell'irresistibile attrazione quando attraversavo i Duty Free degli aeroporti, dove in passato avevo fatto man bassa, ma senza che mi battesse più il cuore come prima. Le collezioni erano diventate troppe. Troppi ibridi troppe malformazioni. Troppo poca classe. Nel mentre era passata l'ossessione collettiva (a partire dalla collezione '94-'95) e Swatch AG dopo un bello shopping di brand era diventato il più grande produttore di orologi al mondo, si era stabilizzata sull'alto, era diventata l'unica vera altrnativa economica agli orologi di lusso. Perchè lo Swatch è come la Smart: è economico ma non è sfigato. Puoi sempre illuderti di avere un Piaget in cassaforte ed una Porsche in garage. Non per niente il progetto Smart nacque proprio da una collaborazione tra Swatch e Mercedes-Benz. Avete mai provato a confrontare il lettering dei due marchi? Ma torniamo agli orologi. Per anni ho desiderato riverne uno che mi facesse battere il cuore come prima, e prima erano i classici a farmelo battere. Cercavo uno Swatch che corrispondesse esattamente all'idea per cui era nato, ovvero essere un orologino economico, spiritoso, ma che si potesse portare sotto ad un blazer blu. Ma niente. Fino a questa primavera, quando Swatch ha lanciato la collezione "Colour Code". Un cinturino di plastica, un quadrante con i numeri chiari e grandi, tre lancette. Stop. Colori vivaci, bellissimi. Gli Swatch erano rinati nella loro essenza più pura. Uno per ogni occasione. Per i ragazzi, per le signore e per gli assicuratori. Volevo comprarli tutti. Ma ho comprato soltanto quello azzurro.
Swatch, troppo a lungo lontano dall'hype, quello vero, si è ripresa per un attimo il posto che le spetta, quello della moda di tutti i giorni, quello del desiderio di possedere un oggetto che questa estate sarà sicuramente un must-have. Ve lo assicuro: torneremo a vedere gente con più di un orologio al polso. E sarà qualcosa di accessibile a tutti, capace di adattarsi a qualsiasi impianto stilistico e cromatico. Come spesso accade è proprio scavando tra i propri valori fondamentali che siritrova sé stessi, e Swatch, almeno per quest'estate tornerà sulla bocca di tutti, anche sulla mia, che d Swatch non parlava da più di 10 anni. Bravi, bravi, bravi.

JS

Saturday, April 24, 2010

Houses are like brands: they can be stretched but they can't lie.

Preface [ENG] Homes, just like industrial brands, transmit values. This values reflect particular choices made by their owners when they design them. That being said, one's most important brand is not the one he buys but the only one that truly owns: himself. The house is, above all, the most effective means to measure one's very own personality, hopes and historical feelings. Just as industrial brands have to be very aware when dealing with "brand stretching", people should be careful when they design their houses: the farther they get from their true identity, trying to give an enhanced image of theirselves, the weaker and the more ridiculous will be the final result. Good houses should be filled with concepts, not symbols, because symbols are meant to speak to others and concepts are meant to speak to the owner himsef. Hard programming very often goes along with forced image, unconcius flow of personal choices instead brings a deep understand of true personality. Houses represent the more intimate "core value" of a person, therefore they should never speak to their guests unless when communicating how big is the honor to have them as their guests.




Questo è un post che maturo da molto tempo, perchè ho l'abitudine di identificarmi molto con le mie case. Alcune le ho scelte, altre no (perchè esistevano già), ma in tutte sento un forte senso di appartenenza e naturalmente diventano estensione della mia personalità e delle persone con cui le condivido. Non è necessario essere uomini di marketing per lavorare sui brand, perchè il primo brand che abbiamo a disposizione siamo proprio noi stessi: attraverso il nostro comportamento e le nostre scelte, (anche in fatto di oggetti) consapevoli o meno, definiamo le linee guida della nostra immagine personale, che serve per venderci. Il prodotto di successo viene comprato, quello scadente no. Tralasciando le qualità comportamentali che definiscono una persona, che sono senza dubbio le più importanti ma meritano ben altra analisi, soffermiamoci sugli aspetti più "visibili" ovvero sui beni che possediamo. Gli elementi tristemente più visibili ed accessibili sono le automobili, i vestiti, gli orologi e tutto quello che dovrebbe immediatamente definire uno status. E' facile giocare con gli oggetti, ma sono fatti di fumo: una volta passati di moda di loro non resta niente. Le case, più di ogni altra cosa costituiscono il "core value" per la definizione del brand personale. Sono solide, esistono per davvero, sono fatte di muri, ma soprattutto di sentimenti, sono il vero specchio dell'anima di una persona. Non tutti sono disposti ad investirvi, perchè appunto sono meno evidenti delgli "accessori", non puoi esisbirle e costano molto di più. L'ospitalità, poi, non è una vocazione universale. Ma torniamo al titolo: Houses are like brands, they can be stretched but hey can't lie. Tutti i brand, dal più povero al più sofisticato hanno dei valori centrali, quei valori storici o costruiti, che accrescono il valore percepito di un prodotto. Poi vengono "stretchati", stiracchiati, per coprire quante più fasce di mercato, quanti più consumatori possibile. Sempre sotto la stesso ombrello, ma con sfumature allungate come tentacoli. Tanto più i tentacoli sono lunghi, tanto più sono lontani dai valori centrali, tanto meno saranno efficaci e sinceri. Brand più forti possono permettersi tentacoli più lunghi, senza correre il rischio di romperli, mentre brand più deboli devono fare molta attenzione a fare stretching, perchè è molto facile che affiorino le loro debolezze, la loro mancanza di storia. Per le case è lo stesso, con la differenza che i valori centrali sono costituiti da noi stessi ed i tentacoli rappresentano i tentativi di dare un'immagine allargata e modificata di sé. Come nei brand, le persone più forti e più profonde potranno giocare ed allungare un po di più i tentacoli, mentre gli improvvisati che cercano di dare un'immagine esponenziale di sè hanno sempre risultati scarsi, spesso addirittura ridicoli, se non miserabili. L'esempio più classico è quello di chi, venuto in possesso di buoni mezzi finanziari, cerca di "affermarsi" attraverso una dimora ricca, ma improvvisata. Solitamente quelle case sono cosparse di "simboli" più che di "concetti". Un televisore gigantesco è un simbolo, un'armonia architettonica è un concetto. Arredi preziosi sono un simbolo, la scelta di un colore è un concetto. I simboli sono forzati, i concetti sono spontanei, perchè provengono dal cuore e non dal cervello. La pianificazione estrema è sintomo di insicurezza così come un flusso irregolare di scelte inconsapevoli è sintomo di quel divenire dinamico che è proprio delle grandi (o piccole) case, di quelle in cui respiri la storia di chi l'ha progettata, arredata, vissuta. Credo che la dicotomia principale sia nel voler dire qualcosa agli altri o nel voler ricordare qualcosa a sé stessi. La casa rappresenta il "core value" di una persona, dovrebbe rispecchiare il più intimo modo di essere, non dovrebbe mai parlare agli ospiti, se non per comunicar loro quanto è onorata di riceverli.

JS

Wednesday, April 07, 2010

Ipad on his way to success.


Mio fratello adesso sta per un po a New York, allora ieri mi ha chiesto cosa intendessimo fare con questo benedetto iPad. Lo prendiamo o no? Istintivamente ho detto sì, prendiamolo, lo usiamo come giocattolino per andare su internet e fare cavolate varie in salotto, a disposizione degli ospiti, o quando non abbiamo voglia di accendere i laptop. Se qualcuno, laggiù a Cupertino, avesse seguito la nostra conversazione sicuramente sarebbe inorridito: credo che non abbiamo assolutamente colto la raison d'etre del nuovo apparecchio Apple, soprattutto perchè è ancora difficile, per i più, mandar giù il concetto stesso di i-book. Già, perchè forse iBook sarebbe stato il nome più giusto per l'iPad, se non fosse già stato usato per la nota serie di laptop. A parte amenità varie, quali internet ed applications, iPad é - e desidera ardentemente essere - un libro elettronico. Pixel in luogo di cellulosa. Ma quale futuro avrà? Saremo tutti, pian piano, travolti dalla tecnologia o resteremo indissolublimente legati a quel mucchio di fogli rilegati che si chiama libro? Un giorno sì e l'altro pure, negli editoriali del NYT si parla del futuro del giornalismo, dell'editoria e del libro rispetto ad internet ed alle apparecchiature da essa derivate.
La questione ormai ruota attorno a due perni fondamentali: la sostenibilità economica dei modelli di business editoriale basati su internet e la fruibilità (accettazione?) da parte del consumatore di tale, profondissimo cambiamento. Da poco i grandi gruppi editoriali stanno sondando il terreno per capire se i lettori online sono disposti a pagare per leggere quei contenuti che fino a ieri potevano consultare gratuitamente, ed i risultati sembrano essere poco incoraggianti soprattutto perchè le notizie ed i commenti si trovano ancora, free of charge. Urge quindi trovare soluzioni di marketing che rendano tali contenuti molto più desiderabili dall'utente medio. Dal fronte del libro invece, sebbene la prospettiva di scaricarne a centinaia sullo stesso supporto possa apparire veloce oltre che alettante, non riesco ad immaginare come si possa rinunciare al profumo, alla consistenza della carta ed al piacere di vedere la propria biblioteca personale lievitare negli anni in memoria della cultura acquisita. Credo che chiunque sia nato con un libro di carta tra le mani troverà insormontabile questo ostacolo, ma è altresì evidente che le nuove generazioni ( i Digitali, quelli venuti dopo i Millennials), nascendo con libri elettronici sotto gli occhi, a casa e a scuola, soprassederanno facilmente.
La furbizia dell'iPad (rispetto al Kindle per esempio) sta proprio nell'aver saputo attrarre gli indecisi con le "caramelline" delle applicazioni collaterali mentre in realtà sta introducendo lentamente il concetto del libro elettronico su vasta scala, creando così il varco decisivo per l'evoluzione e la proliferazione della sua (bieca?) specie. IPad sarà un successo travolgente.

JS

Friday, March 26, 2010

More on John Lobb - St.James






Giusto perchè su questo blog finiscono troppe persone che cercano John Lobb, confondendolo con quello comprato da Hermes negli anni '70, guardatevi questo assaggio.

Monday, March 22, 2010

Good but not cool: a two-case story.




L'obiettivo di un prodotto può essere duplice: vendere molto (nella maggior parte dei casi) o far vendere qualcos'altro. Il prodotto consumer/commodity si ferma al primo obiettivo, vendere il più possibile, come un detersivo, la cui performance è valutata esclusivamente sul fatturato che genera. Esiste poi un altro tipo di prodotto, che non esaurisce la sua funzione con il fatturato, piuttosto nasce per promuovere altro: sostenere un brand, trainare una collezione o semplicemente generare "buzz" intorno ad un'operazione, che essa sia commerciale o a scopo umanitario. Immaginiamo di crare un grafico su due assi, sul primo mettiamo la concentrazione di "hard performance", sul secondo mettiamo i valori di "soft performance". Dall'incrocio di queste considerazioni ogni prodotto troverà una sua collocazione all'interno del grafico. Vicino all'origine troveremo un prodotto assolutamente ingiustificato, nella parte bassa troveremo il detersivo, nella parte alta una borsa realizzata da Prada per beneficienza. Nell'angolo superiore destro, invece, l'Iphone, che rappresenta il matrimonio tra soft e hard, tra il fatturato e l'immagine. Il prodotto perfetto, insomma.
Ma siamo proprio sicuri che l'Iphone rappresenti il prodotto perfetto? Non esistono altri valori da tenere in considerazione per valutare il successo di un prodotto? Con i risultati di vendita e l'immagine si raggiunge il paradiso? Si, chiunque sarebbe soddisfatto di un prodotto del genere. qualsiasi product manager otterrebbe una promozione, ma è altresì vero che lassù, nello spicchio più piccolo del high-end, c'è qualcuno che non si accontenta. Quello spicchio è tremendamente complesso da soddisfare e, sebbene numericamente abbia un'importanza del tutto modesta, il suo peso "politico" è critico. Non sto parlando del tradizionale cluster dei cosiddetti "anticipatori" ma di quelli che, con le loro scelte, condizionano il mercato di domani. Gli appartenenti a questa categoria hanno un considerevole potere di acquisto (ma non sempre) e considerano l'aspetto "culturale" di un prodotto decisivo per la loro approvazione. Il comparto culturale è costituito da quel sistema di segni complessi che connotano un prodotto o un servizio. Non è solo design, solo funzionalità, solo qualità, altrimenti chiunque, unendo questi puntini sarebbe capace di progettare la "bestia perfetta". Piuttosto il quadro culturale è fatto di significati più che di significanti, di retro-cultura, di consapevolezza della storia e del retaggio di un progetto, del suo incastrarsi delle dinamiche sociali in cui agisce. Queste persone (che rappresentano meno dell'1% del mercato secondo stime approssimative) hanno un peso sul mercato notevolmente superiore alla loro quota parte quantitativa perchè condizionano le scelte degli altri. Loro non sono "cool" perchè il cool è anche "pop", non sono nemmeno "uber-cool" perchè anch'esso è uber-pop, troppo riconoscibile. Non sono "radical-chic", perché radicali sono troppo spesso calcolatori e prevedibili nel loro understatement. Non sono "snob" perchè è una categoria che non esiste più da quando sono cadute l'alta borghesia e la nobiltà, sostituite dalle post-oligarchie russe, arabe e pachistane, oggi più pretenziose rispetto a quindici anni fa. Loro non "vanno in vacanza" ma scompaiono nei loro nascondigli, non hanno automobili ma ne "usano" alcune, non fanno shopping ma "hanno" delle cose. Non stanno mai in coda in automobile, o meglio, da nessuna parte. Non mangiano il tiramisù. La qualità degli oggetti è sovrana, ma la qualità dei servizi lo è di più. Le persone e non i prodotti sono centrali nelle loro esistenze. Per loro il "prossimo progetto", "the next big thing" è la cosa più importante del mondo. Stanno bene con tutti purchè i tutti siano originali. Non hanno mai una casa definita ma una serie di "loveplaces". Prima ci sono, poi non ci sono più. Sono dei prestigiatori della sofisticatezza. Sono altamente commessi tra di loro, spesso anche internazionalmente. Camminano a un metro da terra ed accontentarli è una delle sfide più difficili del mercato anche perchè sono difficili da identificare e quindi da studiare. Movimento, imprevedibilità, cambiamento: queste le parole chiave. Il mondo è un parco giochi dove scorazzare per prendere spunti vitali. Loro non hanno un iphone. Io li chiamo gli "Over". Conquistarli non è vitale per il successo commerciale, ma è una sfida a cui un buon marketer oggi non può rinunciare.
Adesso vediamo con qualche esempio pratico e più comprensibile come si muovono nella concretezza del mondo retail, attraverso due tipologie di prodotto cardine per inquadrare una persona al volo. O meglio quelle tipologie che la maggior parte del mercato considera fondamentali per affermare il proprio status: l'automobile e il telefono cellulare.


Porsche Cayenne vs. Range Rover

Gli over, come detto, spesso non hanno la "loro macchina", perchè non gli interessa. Per loro non può rappresentare un biglietto da visita. Qualche volta però, per diletto, guidano. Ma non guidano mai una Porsche Cayenne. Strano, perchè la Cayenne sta sicuramente tra i prodotti meglio riusciti del decennio. analizziamola: è la prima SUV sportiva, è comoda, sicura, ma soprattutto bellissima e velocissima. Suv+Porsche, accoppiata perfetta, sembra una riuscitissima operazione di co-branding. Ha venduto milioni di pezzi, è stata un successo tale che ha contribuito massicciamente alla scalata di Porsche al Gruppo Volkswagen. Davide che mangia Golia. Ma cos'ha che non va? E' terribilmente "ignorante". E' grandissima, consuma tanto, fa molto rumore ma soprattutto è guidata dalle persone sbagliate. Basti pensare al famoso sketch radiofonico di Ranzani, il brianzolo che vive per la sua Cayenne. Secondo voi Damien Hirst, Sofia Coppola, Chloe Sevigny o Tyler Brulè potrebbero mai guidarla? La risposta, chiaramente, è no. Questo è uno dei casi più lampanti di come un grande prodotto non possa appartenere a quella sfera ristrettissima dei capolavori trasversali e veramente "cool", nonostante ne abbia tutte le caratteristiche fondamentali. La sua vera rivale è la Range Rover, non la Sport, ma quella vera, quel "cassone", anch'esso immenso ed antiecologico, che però attraverso la sua aura e la sua storia continua a portarsi dietro un bagaglio di caratteristiche "soft", di segni culturali che, nonostante i russi, la mantengono in vetta al podio. Mentre la Cayenne porta in giro calciatori e hard-leasers, dalle Range scendono cacciatori che scaricano dal baule una coppia di Holland&Holland, come sottolineato dal co-branding con la storica armeria inglese.


Iphone vs. Blackberry

Se uno pensa ai capolavori del secolo, sicuramente non può omettere Ipod e Iphone, due gioielli che hanno letteralmente rivoluzionato i concetti di intrattenimento e di comunicazione. L'Iphone è lo stato dell'arte della tecnologia e del design. Ha una forma non perfettibile ed una potenza applicativa potenzialmente infinita. Perchè allora non è (o non è più) cool? Perchè il suo rivale Balckberry , nettamente meno bello nonchè meno prestante dal punto di vista tecnologico invece lo è? Credo che riesce a capire questo abbia compreso l'essenza stessa del marketing, perchè i signori della RIM stanno gareggiando con un avversario nettamente migliore con la metà dei mezzi. E' come giocarsi un gran premio di Formula Uno con una Ferrari stradale. Oggi l'Iphone (con tutte le ovvie e debite eccezioni) è il telefono delle "donne" e degli "scemi", dove con "scemi" chiaramente non intendo fare dei distinguo intellettivi ma identificare quella tipologia di persone che a cena "sfodera" l'iphone come una sciabola e fa luccicare il suo bellissimo shiny-back orgogliosamente davanti ai commensali, credendo che quell'oggetto basti per qualificarlo: "ehi, avete visto? Io ho un Iphone! Io sono un tipo cool". Ecco questa è l'antitesi stessa del cool, perchéil cool non sta "in vetrina" ma sta ben nascosto dietro dove è difficile da vedere. Come ha risposto Blackberry dal punto di vista del marketing? Beh, siglando un accordo con Monocle, la rivista più sofisticata del mondo, attraverso cui RIM promuove i suoi telefoni intervistando veri trendsetter internazionali e creando contenuti speciali online. Andate qui http://monocle.com/monocolumn/ per il servizio, e qui http://shop.monocle.com/blackberry per il prodotto.

In conclusione, quindi, quella degli "Over" è una categoria affascinante ( su cui spero di tornare in futuro con una radiografia più precisa) che permette di stabilire un termometro mondiale del cool, quello vero, non quello di superficie. Dio ci salvi dagli hipster.

JS