Monday, December 14, 2009

Cosa ci stiamo perdendo, parte 3: il cinema


Proprio quando stavo per comporre la classifica dei cinema più belli d'Italia - sicuro di quale sarebbe stato il numero uno - ho appreso della tragica chiusura del Cinema President di Milano, che dal Luglio scorso ha cessato la programmazione.

Il commercio globale, massificato, plastificato, sta mietendo una nuova vittima: il cinema monosala nel centro città. E' vero, alcuni ormai sono vetusti, decadenti, con audio pessimo e poltrone scomode, ma è altresì vero che tra questi si nascondevano perle di rara bellezza, come il President di Largo Augusto. Il cinema più bello che abbia mai visto. La passione autentica dietro al President portava a selezionare soltanto pellicole di prim'ordine, non quei boriosi e noiosi film d'essai, ma quei "capolavori commerciali2 che sanno strizzare l'occhio al blockbuster nonostante la ferma autorialità. Lì ho seguito Woody Allen, accompagnato l'evoluzione di Sofia Coppola e goduto dell'alterità di Jim Jarmush. L'esperienza comincia all'ingresso, dove - dopo avere disceso una larga scala di valluto - la bigliettaia ti offriva una fotocopia con una mini press-release del film, con trama e critiche ricevute. Non un volantino pubblicitario, ma la loro testimonianza di ricerca e di interesse nei cofronti di ciò che ti stavano vendendo. L'estasi, poi, arrivava una volta giunti nella hall: design di chiara ispirazione mid-60's, linee piacevolmente curve, velluti, stampe optical, colori del sottobosco, attenzione al dettaglio, amore per il bello. Una hall che sembrava il salotto di casa. Bagni che avrebbero dovuto essere menzionati spesso nelle riviste di design e di decorazione di interni, da tanto erano belli, con i loro specchi tondi ed i loro mosaici blu. Niente folla, niente schiamazzi, niento code, niente pop-corn a terra, perchè anche le frequentazione del President erano di un certo livello culturale. Per lo più signori e signore ben vestite, ragazzi per bene, persone composte, silenziose, dall'aspetto gradevole. La sala era ampia, ma non grandissima, anche se con un ottimo impianto sonoro. Le poltrone di velluto, con ogni probabilità, più comode del vostro divano di casa.

Un capolavoro di design, di misura, di intimità, di educazione, di amore per il cinema, che prima di salutare i suoi ospiti ,portava all'attenzione una frase impressa sull'architrave dell'uscita: "Un grande film comincia quando si esce dalla sala".


JS

Saturday, November 28, 2009

Dubai: a tale of broken dreams

Panorama di Portofino


Panorama di Dubai

Quando perdo tempo nel cercare nuovi posti per possibili investimenti immobiliari, mio papà mi dice spesso: "Ci sarà pur un motivo se certi posti famosi si trovano proprio lì dove sono". Ovvero, Portofino, Sankt Moritz, Capri eccetera, sono così famosi, così cari, così esclusivi perchè si trovano effettivamente in località meravigliosamente belle. E' proprio questo il motivo per cui i valori immobiliari di Porto Cervo sono superiori a quelli di Golfo Aranci, così come è questa la differenza tra Sankt Moritz e Bever, Portofino e Santa Margherita, Saint Tropez e Juan-les-Pins. Se questi famosi luoghi di villeggiatura sono stati edificati e frequentati per secoli dal "bel mondo" - da chi poteva spendere di più - è perchè erano i posti più belli dal punto di vista naturalistico. Se devo insediarmi in una zona montuosa, perchè non scegliere quella con le montagne ed i laghi più belli? Se devo passare le vacanze al mare, perchè non scegliere il posto con l'acqua, le rocce ed i tramonti più belli? In fatto di vacanze, quindi, la natura viene prima di tutto. I servizi, poi, anch'essi necesari, vengono dopo. Il valore dell'investimento immobiliare, quindi, è tanto più sicuro quanto più la località è ancorata valori intrinseci reali e protetti da governi assennati. Il paradiso terrestre africano, per esempio, oltre che essere rischioso dal punto di vista sanitario, difficilmente offrirà le garanzie necessarie per un investimento a lungo termine. Queste garanzie, oltre che naturalistiche, devono essere di ordine politico-economico, ovvero lo Stato in questione dovrà dimostrarsi propenso alla stabilità anche in fatto di legislazione e condotta interna. Sicurezze che distinguono un investimento sicuro da un investimento-kamikaze. E' ovvio, uno chalet a Suvretta è molto meno economico della sua controparte rumena o lappone, ma la sicurezza di rivalutazione perenne dell'investimento è altresi molto diversa. La formula aurea, quindi, è natura più contesto politico-economico.


Acqua sarda


Acqua di Dubai Marina

Tutta questa premessa per arrivare al triste punto di oggi: il presunto crack di Dubai World, la holding che controlla tutti gli investimenti, nazionali ed esteri, dell'emirato, compreso Nakheel, la società di costruzione responsabile dei progetti Palm, The World, e numerosi altri. I mercati finanziari del mondo, da due giorni a questa parte sono stati scossi dalla notizia che Dubai World ha posticipato la restituzione degli enormi debiti cui ha dovuto far fronte per rendere possibile lo scempio culturale, naturalistico e finanziario che è sotto gli occhi del mondo. Facciamo un passo indietro. Perchè Dubai ha voluto costruire questa enorme cattedrale nel deserto? Semplice, perchè credevano di assorbire così il loro futuro senza petrolio, risorsa di cui Dubai, tra l'altro, non è nemmeno così ricca. Il piano era, e resta fino a prova contraria, quello di costruire da zero un parco giochi per milionari e star in pensione, fatto di ville, golf, yacht, porti ed alberghi dal lusso senza precedenti. Il tutto in mezzo al niente. Da una parte un mare piuttosto brutto - le spiagge sono state ricreate artificialmente perchè in origine c'erano sassi e melma - dall'altra il deserto. Quello vero, quello caldo, quello che si estende a perdita d'occhio. A confronto Las Vegas sembra Lerici. La promessa di un mondo fatato in cui tutto è possibile ha stimolato fin da subito l'immaginazione esotica di calciatori e medici chirurghi ed attratto parecchi investitori. I prezzi erano tutto sommato contenuti e c'era una soluzione per tutte le tasche. Palm Jumeirah si è venduta bene e piuttosto in fretta, cosi come le proprietà di Dubai Marina, l'esclusiva zona del porto. Per tre-quattro anni tutti volevano provare Dubai, assaggiare di cosa era fatto, qualcuno ha comprato, qualcun'altro si è goduto una settimana al Burj-al-Arab, l'albergo più lussuoso del mondo. Una torre che sbuca dal nulla, tra melma e acqua sporca. Sull'onda dell'entusiasmo iniziale molti altri, ambiziosissimi, progetti sono partiti: altre Palm, The World, il Parco Preistorico e centinaia di condomini. Il risultato, come è evidente, è stato disastroso. Complice la recessione mondiale, l'enorme offerta non è stata più supportata da solidi dati di vendita ed avere proprietà invendute significa non soltanto deprezzare le medesime, ma anche svalutare tutto il comparto immobiliare. Ecco, in parole povere, come sono finiti i soldi a Dubai.
Adesso dovrebbe essere più chiaro il motivo della lunga premessa sui luoghi del turismo storico. A Dubai c'è una bella natura? No. A Dubai c'è un clima socio-politico-economico simile all'occidente? No. Ecco perchè il livello di rischio di un'investimento del genere è altissimo. Certo, con operazioni simili, l'operatore esperto può realizzare enormi profitti comprando e vendendo al momento giusto, ma questo non può essere il modus operandi del padre di famiglia che cerca un investimento sicuro, in un posto in cui può godere della natura e dei servizi con la sua famiglia e che vuole vedere il suo investimento rivalutarsi - magari poco alla volta - costantemente di decennio in decennio. Non solo, quindi, a Dubai il paesaggio è orrido, ma si è fatto di peggio: si è cercato di andare contro natura, creando isole, monti, canali e spiagge. Un'aberrazione dietro l'altra.

Le domande che dovete porvi quando comprate un immobile in un posto, in città ma in particolar modo in luoghi di vacanza, è: sara ancora così tra dieci anni? rovineranno il paesaggio con costruzioni oscene? quali assicurazioni ho che il governo non disponga leggi o normative che possano alterare gli equilibiri immobiliari o le abitudini di chi frequent assiduamente questo posto? Ma soprattutto dovete chiedervi: assomiglia o ha le potenzialità per diventare la nuova Portofino o Sankt Moritz? Se non siete bravi a darvi queste risposte allora andate sul sicuro e optate per qualcosa che conoscevano anche i vostri nonni.

JS

Thursday, October 29, 2009

FOG - Fear of Google


E' già qualche anno che futurologi ed analisti della domenica si sperticano per elogiare l'eccezionale precisione delle anticipazioni di George Orwell a proposito dell'evoluzione voyeuristica del nostro mondo sociale. Fino a ieri tutto ciò sembrava più una forzatura di stampa che una reale minaccia, più un motivo per fare "trash talking" che una effettiva preoccupazione. Adesso le cose stanno cambiando molto rapidamente, ed il problema è che la maggior parte di noi (che ritiene già affrontata e sviscerata la problematica con la questione Orwell-Grande Fratello) non si rende conto della velocità e della potenza di questo cambiamento, e ancor peggio, sta perdendo la capacità di difendersi da questo flusso che, a grandi falcate, ci porterà a mettere la nostra esistenza in vetrina. Ma facciamo qualche passo indietro, cercando di capire come, passo a passo, abbiamo perso la nostra privacy.

Il vero problema è stato la nascita di internet. Prima di essa esistevano gli investigatori (che dovevano seguirci per vedere cosa facevamo e chi frequentavamo) e gli intercettatori (che registravano le telefonate da telefono fisso e, poi, cellulare). Per essere oggetto di interesse da parte di questi signori era necessario aver fatto qualcosa in più che aver cercato la parola "bomba" su un motore di ricerca, ve lo assicuro. Poi è venuta intenet, che comunque, prima di diventare pericolosa ha vissuto un quinquennio di adattamento, in cui era, oltre che poco potente, molto poco diffusa. Pertanto individuo il momento di rottura al momento in cui le nostre mamme e papà (baby boomers), i nostri professori e le nostre "amiche sceme" hanno cominciato a considerare la rete esattamente come il caffè: necessario, fin dal mattino. Da quel momento "loro" (la rete, quindi chiunque) possono sapere cosa cerchiamo, cosa guardiamo, cosa scriviamo. Restava comunque valido il concetto che non tutti noi siamo di interesse pubblico-istituzionale. Le email e la cronologia internet della "Signora Gina" probabilmente erano e sono tutt'oggi di scarso interesse oltre che troppo frammentarie per essere utili "as a whole" per fini statistici. Internet rimaneva comunque UNO tra i tanti mezzi di comunicazione, assieme alla televisione, la stampa, i telefoni fissi e cellulari. Ecco , questo periodo, finito ormai qualche anno fa, egna la linea di demarcazione, rappresenta il grande equivoco: la stampa e la TV generaliste cominciano il loro battage fatto di reportage e copertine in cui si demonizza il novello Pericolo-Internet, la minaccia della lesione della privacy. Il mondo metabolizza il problema, crede di potersi facilmente difendere perchè le informazioni in gioco non sono poi così importanti. Chissenefrega, in fondo, se qualcuno sa che io mi interesso di esoterismo oche prenoto online un viaggio a Parigi. Avanti tutta! E la guardia viene abbassata proprio mentre quel processo si stava veramente impadronendo delle nostre vite con una serie di nuove tecnologie ed appicazioni che, a quel punto, venivano considerate del tutto normali e legittime: sto parlando della tecnologia VOIP (Skype) ma soprattutto di Facebook, quello che io chiamo "la rivincita delle nullità". Se Skype (per fortuna non ancora troppo diffuso) rappresenta soltanto un tassello in più nel controllo delle informazioni, Facebook invece è la droga per la massa che improvvisamente diventa persente in maniera permanente sulla rete, creando un database di dimensioni inimmaginabili a disposizione di chiunque ne sia interessato, cavalcando l'onda di entusiasmo dei nuovi utenti della rete post-MSN Messenger. Facebook è utilizzato da tutti, è la prima volta che gli amici dei nostri genitori fanno una cosa con noi, esattamente come noi. Il principio base di questo social network è la leva del personal-brand-awareness, ovvero lo stuzzicare il narcisismo insito in ognuno di noi. Ci sono persone che si illudono di rinvigorire e potenziare la propria immagine sociale attraverso storie abilmente costruite, fatte di dichiarazioni di status, di fotografie, di filmati. Mi è capitato più di una volta di avvertire un certo bisogno di esserci, da parte di qualche amico, in determinate situazioni: "dai, facciamo una foto" - si dice - come se la foto rappresentasse l'esistenza stessa di quel momento. Se non è su Facebook, insomma, non esiste. Questo ha dato modo a molte persone che credevano di vivere nell'ombra di costruirsi un "brand personale" ed ai più bravi (nozioni basilari di marketing aiutano moltissimo in questo senso) di crearsi addirittura un personaggio che viene spiato, imitato, invidiato. Per fare un altro esempio, mi è capitato più di una volta di intuire che il mio interlocutore sapeva perfettamente cosa avevo fatto l'estate prima e soprattutto chi avevo frequentato. Certe domande non si fanno più nell'era di Facebook. Moltissimi poi sono i casi di discronia, ovvero di gente che vuole dare un'immagine di sè diversa dalla realtà, perche FB dà modo a tutti di essere cantastorie. Tutto ciò però ha un prezzo, quello della certezza assoluta di non potere tornare indietro, di non poter cancellare nulla. Verba volant, bytes manent.

Bene, ricapitolando, oltre ad Ecelon, il grande orecchio della CIA, siamo controllati nelle chiamate VOIP, e nella vita di tutti i giorni, nella misura in cui lasciamo le nostre tracce su internet, in siti, social network e quant'altro. Al resto pensa Google, il vero pericolo di internet 3.0, quello del "flusso ininterrotto di informazioni".

Google ha un motore di ricerca, un provider di email (Gmail), le applicazioni Earth, Maps, Docs, un browser internet (Chrome), Youtube, e sta lanciando applicazioni formidabili come Google Voice e Google Wave (un sistema di condivisione che unisce messaggisitica, documenti o qualsiassi altra cosa). Si curamente ho dimenti cato qualcosa, ma è certo che questo "pacchetto" rappresenti il definitivo "pacchetto dello spione" e quel che è peggio è che si trova i piena fase evolutiva. Il sistema operativo Android può rappresentare la goccia che fa traboccare il vaso. Android è un sistema operativo per telefoni cellulari e smartphone, in concorrenza con Symbian e Windows mobile e la sua vittoria sui rivali potrebbe essere la stoccata decisiva di Google nella battaglia della conoscenza. Internet, voce e localizzazione. Nulla rimarrebbe più fuori dalla loro portata. Il solo pensiare che un impiegatino di Google, mangiando una pizza rancida, possa farsi quattro risate cliccando sul mio file, accedendo cosi a buona parte della mia vita, mi terrorizza. Fear of Google, così il New York Times ha chiamato il fenomeno, che fortunatamente è stato rilevato, di psicosi collettiva da controllo delle informazioni. Non è Microsoft, ma Google, il vero gigante della rete.

Un altro rischio terribile è quello dell'assimilazione di Google con il concetto stesso di "conoscenza". Qui in Italia ci preoccupiamo della libertà di stampa, ignorando che la maggior parte delle persone oggi trovano quello che cercano su internet, non sui giornali e sempre meno in TV. La televisione è destinata a vedere ridimensionato drasticamente il proprio ruolo non appena sparirà la generazione delle "casalinghe non informatizzate", le uniche oggi ai margin del processo di informatizzazione. La TV scalerà progressivamente al ruolo di contenuti on-demand, sarà completamente integrata con internet, vivrà sulla Rete, integrata con il suo gigantesco flusso di informazioni, di preferenze, di contenuti, di tracciabilità. Già oggi in molto confondono Google con l'Oracolo di Delfi, ponendogli domande dirette, e credendo che le sue rispostre siano profetiche; Google Books (che prima avevo tralasciato) è mirato proprio a questo, a dare un sorta di legittimità culturale alle ricerche generiche. Pensate al pericolo di considerare verità tutto quello che si trova su internet. Non casualmente infatti la Rete è il luogo in cui tutte le teorie complottisitche, più o meno strampalate, trovano ascoltatori ed ingenui sostenitori.

Prepariamoci quindi a difendere la nostra privacy e la nostra conoscenza dal mostro della rete. Vedo già un domani in cui nasceranno società di Tutoring per la personale presenza su internet e per la consulenza sulla creazione di assetti di comunicazione protetti. La Internet Presence può avere molti lati posisitvi ma, per il momento pare evidente che i rischi prospettici siano di gran lunga più grandi. Ah, dimenticavo, questo blog è ospitato da Google.


JS


Tuesday, September 29, 2009

The September Movie Break | The Terror Issue: Calvaire, Vinyan, Donkey Punch

Ormai sembrerò diventato cultore dell'horror. Ma non è così, quando intravedo il talento gli corro dietro. Di pochi mesi fa è stato il post sulla nouvelle vague orrorifica francese (quella di Aja e Gens), adesso rinfoltita da una recentissima scoperta: Fabrice Du Welz in coppia con il suo scrittore Oliver Blackburn. I film sono tre, da vedere tutti. Io li ho visti in tre giorni consecutivi, seguendo l'entusiasmo.











Calvaire (2004): non ricordo come l'ho trovato ma è stato un'autentico sconvolgimento. Più inquietante di Martyrs, Calvaire narra la vicenda di un mediocre cantante da teatrino che sosta, causa guasto al furgoncino, nell'albergo sbagliato, nel villaggio sbagliato. Sembra il solito plot alla "Texas Chainsaw Massacre", gli ingredienti sono gli stessi, ma qui niente è come sembra. I punti di vista sono rovesciati: la vittima si trova a fronteggiare carnefici la cui visione del mondo è spostata, quasi sempre invertita; le loro malformazioni mentali agiscono all'unisono, producendo un viaggio (un calvario, appunto) nell'incubo più profondo, fatto di desolazione, emarginazione, deviazione. Il film sale d'intensità progressivamente: dopo una mezz'ora, a cui talvolta bisogna "resistere" nonostante siano da subito evidenti i talenti del regista, l'ultima parte è un crescendo di colpi ad effetto tremendi. Una sequenza su tutte, la resa dei conti finale, ripresa prependicolarmente alla stanza, è un gioiello visivo, di una forza spaventevole assai rara. Lo spettatore è totalmente smarrito dall'assenza di riferimenti razionali, sensazione totalmente condivisa soltanto con il martoriato cantante. Giusto per frvi capire: il protagonista viene chiamato da tutti "Gloria" o "puttana". Un agnello è consoderato essere un cane, quando non viene utilizzato per pratiche che ho addirittura vergogna a scrivere. Per stomaci veramente forti, Calvaire mette in mostra un talento visivo fortissimo ed un'indagine dell'incubo (con risvolti cristiani) spiazzante, dando vita al film più sconfortante che abbia mai visto. La notte stessa mi sono svegliato tre volte in preda agli incubi. Per davvero.







Vinyan (2008): a quattro anni da Calvaire, Du Welz torna con il suo personale Apocalypse now, che ovviamente ha goduto del vantaggio dei soldoni americani, tuttavia senza compromettere troppo quelle caratteristiche che lo hanno portato alla ribalta con Calvaire. Una coppia di coniugi perde un figlio durante lo Tsunami e decide di tornare a Bourma per ritrovarlo. Comincia così il loro viaggio nel terrore di una meravigliosa foresta popolata da bande di bambini. Che purtroppo per loro non sono i "bambini sperduti" dell Isola che Non C'e'. Ancora una volta Du Welz mette in scena un percorso interiore che piano piano perde adesione alla realtà, diventando uno stream cui i protagonisti possono soltanto sottostare. Costante rispetto a Calvaire rimane l'impotenza nei ocnfronti del destino, sembra che reagire non serva a nulla: l'unica strada per la salvezza è la redenzione attraverso il sangue, il riconoscimento della follia come male necessario per espiare la colpa. Emanuelle Béart, bellissima, mantiene la lucidità per poco più di quindici minuti, per poi mostrarsi arrendevole e congiunta con lo spirito dei bambini e della foresta.
Meno "gore" e meno stupefacente di Calvaire, Vinyan mantiene comunque un'ammirevole originalità, non cadendo mai nelle banalità del genere ed esibendo il solito bel talento visivo e sonoro. Un gioiellino, elegante e profondo.







Donkey Punch (2008): Diretto da Oliver Blackburn (scittore di fiducia di Du Welz) è decisamente il più convenzionale dei tre, nessuna grande idea, nè di soggetto nè di tecnica, ma una confezione superlusso per ricordare ai mestieranti americani che si può fare un teen-horror in maniera un po più colta. Tre ragazze, a Maiorca, vengono invitate a bordo di uno yacht da quattro ragazzi dell'equipaggio in licenza. La festicciola, si trasformerà in un incubo quando un incidente provocherà il cedimento nervoso ed una assurda sequenza di morti. Donkey Punch è un deja-vu per molti versi, ma la fotografia, le musiche e qualche volta le recitazioni, lo portano un pochino più in alto della media. Per metà sballone-erotico-adolescenziale (soft core, ma piuttosto esplicito), per metà splatter, con pugnalate, eliche trinciatutto e razzi sparati nel petto: il mix riesce, il film è godibile e fresco, specialmente nella prima parte. Da vedere così, come viene e col "sorriso". Ah, credo si trovi solo in lingua originale.

PS Donkey Punch è una leggenda metropolitana secondo cui, sferrando un colpo secco sul collo alla partner mentre si fa sesso improprio, si otterrebbe un prodigioso effetto.

JS






Friday, September 25, 2009

Cosa ci stiamo perdendo, parte 2: il mocassino


"-Era vera quella storia di Charlie Wallser?"
"- Non potrei giurare su ogni dettaglio ma è senz'altro vero che è una storia."



[No Country for Old Men]






I dettagli di questa storia sono passati di bocca in bocca, quindi non sono pronto a giurare sulla loro completa autenticità. Ma resta una storia. Eccola.
I mocassini, quelli che intendo io, non ci sono più. O meglio, così credevo fino a qualche settimana fa. Sconsolato, per anni, ho cercato di autoconvincermi che le inglesi (Crockett&Jones su tutte) fossero il meglio sulla piazza, che fossero le più prossime a quegli archetipi che ormai sono troppo saldamente impressi nella mia memoria per potere scendere a compromessi. Invece no, in fondo non mi sono mai andati giù. L'unica scelta percorribile è stata quella di custodire quelli del Nonno come gli ultimi esemplari di una specie estinta.
Qualche settimana fa un Cugino della vecchia generazione va a Parigi in visita, ed i Cugini della nuova generazione non possono far a meno di notare che porta dei mocassini meravigliosi. "Morbidissimi, leggeri, bellissimi". La notizia mi viene immediatamente riportata. Il Cugino "old school" è di certo un uomo molto elegante, ed i "piccoli Cugini" sono certamente ragazzi di buon gusto, quindi prendo l'insight per buona. "Sono fatti a mano, su misura a Firenze. Ve ne ordino subito qualche paio" -dice il Cugino-, e si scatena subito una folle rincorsa a quei mocassini.

Con un po di intelligence ben strutturata ottengo le informazioni necessarie e, battendo tutti sul tempo, sono il primo a trovarli. appena li ho visti ho sorriso. Il proprietario del negozio (che li fa arrivare da Firenze) mi avrà certamente preso per pazzo. Non sapevo che colore e che pelle scgliere, erano tutti bellissimi. Leggeri, affusolati, suola a filo. rfetti, anche se non per tutte le stagioni. Alla fine ne ho presi due, con la certezza che da lì a poco li avrei comprati tutti. Tornato a casa (ero in un periodo "defatigante" a Casa), li faccio vedere a mio padre: "Jacopo ma stai scherzando? Questi li ho anch'io. Non te ne eri accorto?". Li aveva trovati prima di me. ecco perchè erano cosi familiari.

Adesso un po di mitologia. I mocassini sono una riproduzione esatta del modello Arfango, celebre negli annisettanta, quando di Tod's ancora non vi era notizia. Il vecchio direttore creativo della Casa fiorentina li aveva riproposti, utilizzando marchi strani e sconosciuti (su internet nessuna traccia). Parlo al passato perché pare lui sia deceduto poco più di due mesi fa, lasciandoci di nuovo senza speranza.
I modelli, dotati della stessa "linea" sono tre: classici-formali, in pelle lucidata; sportivi, dal look invecchiato (un prodigio); e scamosciati. Il fil rouge che li unisce è la morbidezza, la linea sobria ed un sapore antico, che dà l'impressione vi portare ai piedi qualcosa che è vissuto prima di noi, qualcosa che non ha bisogno di essere usato per "invecchiare bene". Insomma, la migliore scoperta dell'anno.


JS



Sunday, September 13, 2009

Milan Vogue Fashion Night 2009: ambiguity.


Giovedì mi sono fatto un giro in bicicletta con fratello e cugini. Inizialmente per andare alla "festa" di Italia Independent, poi ho approfittato per dare un'occhiata in giro. Era la notte bianca della moda. Primo esperimento di un'iniziativa che, se da un lato è lodevole quantomeno per il tentativo di muovere qualcosa, dall'altro mi ha fatto quasi tenerezza. La sensazione era quella di aprire le porte a tutti, non per renderli partecipi del movimento quanto per cercare disperatamente di "fare cassa". La settimana della moda, quella vera, verrà tra poco e sarà chiusa come al solito. E' come se la moda chiedesse al suo pubblico di venirle in soccorso, comprando nel momento del bisogno, per poi sbattergli la porta in faccia alle sfilate ed alle feste che contano per davvero.

Il paragone con la Design Week sorge spontaneo, e non può che risolversi con un'ovvia constatazione: il design è vero e non si prende troppo sul serio; la moda per contro non riesce ad aprirsi completamente per quella sorta di elitismo estetico che la contraddistingue. L'altra sera sembrava di avvertire una specie di innervosimento da parte degli addetti ai lavori che, vedendo un tale confluire di "commoners" nel Quadrilatero, soffrivano per la profanazione dei loro templi.

E' un vero peccato, perchè la moda, come il design, è tra i valori più esclusivi che l'Italia detiene. Sono il frutto di due culture fatte di esperienza, artigianato, profonda conoscenza, tessuto industriale, clientele colte. Questi valori dovrebbero essere condivisi sulla base della passione, dell'interesse, non filtrate dal glamour e dalle copertine delle riviste. Il design riesce a sostenere la dicotomia tra gli "addetti ai lavori" ed il pubblico meno glamour, perchè gli estremi del suo sistema interno (aziende, designer, negozi, clienti) condividono gran parte degli obiettivi. Stanno dalla stessa parte della barricata, sono automaticamente esclusivi, comunicano tra loro in maniera efficiente perchè utilizzano lo stesso linguaggio e questo rende meno stridenti le loro occasioni d'incontro. La moda no, ed il motivo è chiaro: l'impresa moda, nella sua accezione multinazionale non può più prescindere dall'abbracciare tutte le fasce di consumatori, anche quelli che non reputa "all'altezza" di partecipare ai suoi baccanali.


JS

Tuesday, June 30, 2009

Invent




Su IHT ieri mattina Thomas Friedman (che quando non parla di "green" è ancora il mio scrittore preferito) ha puntualizzato la sua posiszione a proposito della direzione che gli Stati Uniti ed il resto del mondo devono prendere in reazione alla crisi economica. Il titolo, piuttosto diretto, era "Invent, invent, invent". Piuttosto che stampare banconote, secondo Friedman, sarebbe più utile tornare a stampare talenti in maniera significativa: Thomas Edison, Bill Gates, Sergei Brin,Larry Page, alcune delle proposte per un'intensa produzione seriale. I talenti, i cervelli, non gli stimulus pack, sono quelli che creano ricchezza reale e prospettiva. Per fare questo, ovviamente, bisogna puntare sull'istruzione di eccellenza, sulle Università, che non devono essere poste in concorrenza con le vicine di stato (nel caso degli USA), ma essere rapportate al benchmark più competitivo. Anche le università "first tier" devono pertanto continuare a spingere in alto la competizione, inseguendo il primo della classe.


Questo può sembrare un ragionamento del tutto logico, quasi banale, ma se ricondotto alla situazione italiana può davvero fare paura. L'assenza di competitività su scala internazionale è davvero preoccupante. In Italia ci bulliamo sostanzialmente di due università (Politecnico di Milano e Bocconi), quasi come se fossero due meraviglie, ma la realtà è un'altra: quello che noi consideriamo eccellenza, per il resto del mondo è magra normalità.


Credo che buona parte di questi problemi nasca dall'eccessiva estensione del numero degli atenei e dei corsi di laurea. Sebbene l'ampliamento della base degli studenti abbia portato ad un incremento dell'"alfabetizzazione", è altrettanto innegabile che la maggior parte delle istituzioni minori abbia creato un immensa massa di studenti poco qualificati e, ancor peggio, del tutto privo di obiettivi. La dinamica dello "studiare per forza" è quanto di più dannoso possa esserci per preservare la qualità degli insegnamenti. Forse l'istituzione di corsi di avviamento al lavoro sarebbe più utile per chi non ha le idee chiare al momento della scelta post-maturità, e restituirebbe un po' di aria al mercato del lavoro.




JS

Friday, June 26, 2009

The biggest Show on Earth: Jacko


E' stato una statua prima di morire. E' stato la più grande star che il mondo abbia mai conosciuto. Ha vissuto su questa terra come una divinità e per questo ha creato il suo Olimpo, Neverland: per preservare la sua natura messianica, troppo spesso scambiata per disequilibrio. La sua immagine ha dovuto perdere di concretezza; ancor prima della morte organica c'era stata la morte fisica, che ha fatto del suo corpo un mero mezzo per deambulare. Michael Jackson non era sè stesso, era la rappresentazione di sè stesso. Le immagini simboliche, i simulacri, il Pop, nella sua più vera rappresentazione, oltre Warhol, oltre Koons. Lui è stato più grande, perchè ha utilizzato sè stesso, nessun altro supporto, per permettere alla sua arte di esplodere. Le metarmorfosi della carne sono state soltanto il primo passo di avvicinamento verso quell'eternità che si era già guadagnato.

Jacko è stato il più grande Show mai portato sulla scena di questo piccolo mondo. Uno spettacolo che non cesserà mai di andare in scena, perchè già da molto tempo non aveva più bisogno di un corrispettivo umano.


JS

Saturday, June 20, 2009

One-bite Movie Break | Martyrs et l'école francaise


Così come Dario Argento ha rinnovato il registro dell'horror negli anni '70, i francesi, adesso, stanno tracciando la strada da seguire; tre prove su tutte sostengono questa tesi: Alta Tensione e Le Colline hanno gli Occhi, di Alexandre Aja e, Frontiers, di Xavier Gens. I primi due in particolar modo dimostrano che esiste una maniera "sottile" per rispondere alle nefandezze che provengono dagli Stati Uniti. La nuova frontiera dell'horror francese riporta il genere ad una dignità ed a una fruibilità più estese, tramite un modo di fare cinema che si cura della scrittura (personaggi e tempi) e della forma (le musiche sono sempre strepitose). I "mostri" non sono mai lì per offendere scriteriatamente e le vittime non sono mai lì a porgere le loro carni come agnelli sacrificali. In qualche modo è come se la lezione di Hostel fosse stata ascoltata, appresa ed elevata. In estrema sintesi direi che è proprio quell'aura di realismo e di verosimilità la vera cifra di questa sorprendente e piacevole corrente.


Dopo aver inquadrato il frame principale veniamo a Martyrs, il film che più di ogni altro darà la consacrazione alla scuola orrorifica francese, in quanto rappresenta, forse, la maturità del genere, il diamante che brilla di più, il cavallo che ha corso più veloce degli altri.

Martyrs non è soltanto un grande horror, è un grande film che ridefinisce da cima a fondo gli standard del genere. E' un film colto, profondo, crudo e scioccante; nonostante la stordente quantità di sangue non si riesce a togliere lo sguardo dallo schermo. L'attenzione per il dettaglio, l'amore per la verosimiglianza e, al contempo, il desiderio di trascendenza, sono mescolati con continuità, come in un viaggio verso la fine, che essa sia la morte o Dio. L'ascesi (che è poi il vero punto del film) non è soltanto raccontata, ma dimostrata: in una serie di passaggi, tremendi ma anche struggenti, gli autori portano lo spettatore per mano fino alla loro tesi finale, che, ad oggi, è anche la più credibile ed emozionante rappresentazione di Dio che abbia mai visto.

Lo so, sembrano "parole grosse" ma vi assicuro che Martyrs vi lascerà qualcosa che difficilmente dimenticherete.

Riportando la trattazione su toni più pragmatici, la più grande trovata narrativa sta nel drastico cambio di prospettiva che, verso la metà del film, vira completamente il punto di vista, dopo la morte della "protagonista". L'ultima volta che ho visto maneggiare con tanta cura una sterzata così drastica è stato alla morte di Janet Leigh in Psycho. E ho detto tutto.

Se proprio, poi, vogliamo trovare il pelo nell'uovo, allora diciamo che l'unico piccolo difetto sta, forse, nell'eccessiva lunghezza di uno-due passaggi e in qualche indugio di troppo quando il ritmo richiedeva un po di combustibile.

resta comunque una prova di assoluto spessore artistico e narrativo che, anche se vi inorridirà, merita di essere gustata a nervi tirati.


Wednesday, June 10, 2009

The Magaziner | IL: Intelligence in Lifestyle



Il mio nome è Edoardo Bonaccorsi e "The Magaziner" è la rubrica che curerò all'interno di "Life is a Show"; cos'è? Semplice, prendo un magazine (se mi gira anche un quotidiano) e ve lo recensisco. Un modo per scoprire lati nascosti dell'editoria nazionale ed internazionale, o per vedere sotto un diverso punto di vista qualcosa che abbiamo ogni giorno tra le mani. Esattamente come si fa per i dischi. Recensione e voto (in base 5 stellette, proprio come per i dischi).

IL: Intelligence in Lifestyle - Il maschile del "Sole 24 ORE".
Paese: Italia - Stellette: 4,5/5
Periodicità: mensile

Quando l'estate scorsa ho avuto tra le mani il primo numero di IL mi son detto "per essere un magazine ad alta tiratura non sembra essere italiano". Ed è esattamente la prima cosa che ti viene da pensare avendolo tra le mani. Diciamo pure le cose come stanno: è il miglior mensile italiano.

Prendete una buona dose di Monocle, aggiungete More Intelligent Life dell'Economist e condite con una spruzzatina di L'Europeo, dell'edizione domenicale del Sole 24 ORE e degli articoli apolitichi de Il Foglio. Dimenticavo, visto che ci siete prendete pure Class e bruciatelo nel caminetto, che fa una bella fiamma. In poche parole IL è apparentemente perfetto.

La grafica è eccezionale, pulita che sembra essere quella di Monocle, ma con quel vezzo pop in più che toglie quell'aria perfettina un po' antipatica del mensile di T. Brulè.

Gli articoli son tutti di approfondimento, risultano molto interessanti anche se la maggior parte di loro manca di una vera carica giornalistica: sotto sotto resta sempre un maschile.

Questo in fondo è l'unico motivo che mi ha portato a non dare tutte le 5 stellette, tuttavia la perfezione è antipatica, brutta, noiosa; quindi IL – non essendo perfetto – è assolutamente perfetto.

Thursday, June 04, 2009

David Carradine: Kill Bill


Oggi è morto David Carradine.
Non sono mai stato un amante del genere di film in cui lui spadroneggiava. L'ho conosciuto come Bill.
"Bill" è morto e mi piace pensare che a farlo sia stata Black Mamba.


JS

Monday, May 18, 2009

Affluence.org: senza parole


Questa volta non so proprio cosa dire.

Qualche giorno fa sono stato invitato ad iscrivermi ad un social network che si chiama Affluence.org. Dopo aver letto la mail di presentazione mi ero quasi convinto che fosse spam, o uno scherzo, perchè più o meno recitava così (in inglese): sei stato invitato a partecipare al nostro esclusivo network di milionari, che ti darà accesso a privilegi di vario genere, da un servizio di concierge ad inviti per qualsiasi evento sul pianeta, oltre che permetterti di essere in contatto diretto con altri membri "affluenti" come te.

Ma la parte più bella è questa: per iscriversi è necessario avere un household income di almeno 300.00 euro o un net worth complessivo almeno 3 milioni. Saranno fatte verifiche a proposito del tuo status.

Allora ho googlato la community ed ho visto che non era uno scherzo, la cosa esiste per davvero, e sono sconvolto. Almeno, però, qui lo dicono chiaro: gli interessa soltanto che tu sia milionario.

Miracoli (e aberrazioni) della rete.

Vi farò sapere.


JS



Friday, May 08, 2009

Premium for independence vs. merge to survive


Prima di tutto come la penso io: è da tempi non sospetti che dico che l'indistria dell'auto è fallata, viziata all'origine. Il settore ha assunto un ruolo troppo importante (dal punto di vista occupazionale e di contribuzione al GDP) in relazione al prodotto che commercializza. Il mercato dell'auto è cronicamente ciclico, quando va male si mangia il grasso che produce quando va bene. Il vizio alla base è il seguente: per quale motivo un individuo deve cambiare auto in continuazione? E soprattutto, perchè lo deve fare se la sua automobile continua a funzionare bene? Quello che si è creato è un gigantesco misunderstanding, creato ad arte, che assimila il cambio di auto al cambio di vestiti. Moda e status, insomma. Io ho una BMW da nove anni, è ancora bellissima, tenuta perfettamente, e non ho nessuna esigenza di cambiarla, fin tanto che continua a fare il suo lavoro. Era bella quando l'ho comprata, e continua ad esserlo oggi. Fu pagata in contanti, chi me l'ha regalata poteva permettersela. Nessuna rata, nessun leasing, quella macchina non fa parte del meccanismo per il quale "ad un certo punto ti conviene cambiarla, sennò non vale più niente". Mio fratello ha una BMW, più nuova della mia, e ricordo distintamente che quando la vidi percepii subito una differenza sostanziale: nel giro di pochi anni BMW aveva cambiato strategia, aumentando la tecnologia e riducendo il valore intrinseco dell'auto in termini di finiture, materiali e lusso percepito. Aveva aperto a fette di mercato più larghe, con modelli più "economici", che in quel momento erano in non plus ultra. Ma erano destinati ad invecchiare presto. Erano, e sono, auto "a scadenza programmata". Sia dal punto di vista teconologico, ma soprattutto dal punto di vista estetico. Tra poco quella BMW sembrerà vecchia. La mia invece, che vecchietta lo è per davvero, manterrà sempre quella linea solida ed austera con quale era stata concepita. Vi faccio un altro esempio. Avete presente la Mercedes SL? Bene, mio nonno ne aveva una, del 1972, meravigliosa, mai una notte fuori dal garage, perfetta, immortale. Quel modello è durato vent'anni. Quello dopo soltanto 10, e l'attuale si avvia alla sostituzione in meno di 5. Magari sbaglio un po gli anni, ma il concetto resta. Le case automobilistiche "premium" avevano cambiato strategia. Volevano entrare in tutte le fasce di mercato, volevano fare firmare cambiali e contratti di leasing a tutti, e per sostenere il giochino dovevano cambiare in fretta i modelli: rendendoli presto oboleti costringevano a sottoscrivere nuovi leasing e così via. Provate a chiedere a vostro nonno, o anche a vostro padre, in quanti possedevano BMW o Mercedes ai loro tempi. Sono sicuro che vi risponderanno: "certamente meno di adesso". Credo che tutto ciò abbia molto a che fare con la "cescita ad ogni costo", ma questo è un terreno molto più complesso ed io non sono certamente la persona migliore per affrontarlo.

Veniamo a ieri. Due articoli su IHT: il primo "BMW puts a premium on independence", il secondo "Fiat in talks to buy GM's european operations", delineano chiaramente due strategie opposte. Da un lato Marchionne sostiene che non si può sopravvivere con meno di 6 milioni di auto vendute, dall'altro BMW auspica un ritorno alle origini, puntando sul ripristino dei vecchi valori (lusso e qualità) e sull'indipendenza. Difficile stabilire chi avrà ragione, perchè forse, tra due-tre anni, l'auto tornerà a "tirare" e allora Fiat-Chrysler-Opel-GM sfrutteranno le loro sinergie e torneranno a godere del ciclo positivo. O forse avrà ragione BMW, che, in virtù della sua indipendenza, riuscirà a sopportere meglio il prossimo slump. Una cosa è certa: più grande è la nave, più soldi ci vogliono per tenerla a galla quando affonda. Pensate se, nel prossimo ciclo negativo, dovessimo salvare (con soldi pubblici) un gigante come quello che si prefigura dalle fusioni pilotate da Fiat. Sarebbe una tragedia di dimensioni inimmaginabili. Molto probabilemte nessuno avrebbe le risorse per salvarlo dalla bancarotta. Trovo che tutto ciò sia molto pericoloso, e sembra che questa crisi non ci abbia proprio insegnato niente. Il mercato dell'auto è dopato, non commercializza beni di prima necessità e per questo sarà sempre esposto ai cicli economici in maniera massiccia. Quello che ci vorrebbe adesso è un'ennesima presa di coscienza, bisognerebbe ridurre piuttosto che ingigantire, razionalizzare piuttosto che "cartolarizzare", bisognerebbe costruire auto migliori, che inquinino di meno e durino di più. Un downsizing dell'industria dell'auto sarebbe doloroso, sì, ma sarebbe un passo importante per riportare tutto alla sua misura naturale.



JS

Wednesday, May 06, 2009

Montecarlo: vacationland







Era da un po' di tempo che non tornavo a Montecarlo; lo scorso weekend ci siamo stati in barca, ospiti di un caro amico. Due notti in rada, la prima a Saint Jean-Cap Ferrat, la seconda a Villefranche. Terza e quarta notte a Port Hercule, il porto di Montecarlo. Sebbene il nostro armatore sia un esterofilo convinto, non ho potuto esimermi dal paragonare quel bellissimo lembo di costa con la sua prosecuzione italiana, quella ligure. Quello che emerge è che i paesini, in sé, sono nettamente meno belli: dal punto di vista del patrimonio artistico-architettonico non ci sono paragoni, Portovenere, Portofino, le Cinque Terre, Lerici e così via, hanno un respiro diverso, uno charme superiore. Il punto, però, è che sono meno curati, secondo l'antica (e purtroppo reale) diceria secondo cui i francesi sano vendersi meglio, anche laddove il materiale a disposizione è proprio modesto.



Monaco, e Montecarlo, però sono un'altra storia: la più grande percezione che ho avuto è che lì tutti siano in vacanza da una vita, che nessuno lavori. Rispetto ad altri posti di vacanza internazionali, come Porto Cervo o St.Moritz, dove risulta chiaro che i villeggianti siano in vacanza "a tempo", tra un CDA ed un'altro, a Montecarlo, guardando la gente negli occhi, si avverte che il giorno dopo non andranno in ufficio. MC è un'isola per godersi eredità e pensioni dorate.



Alcune rilevazioni spicciole:






-Gli alberghi cambiano nome ma non appeal: Le Meridien e Fairmont, in perfetto stile americano, sembrano terminal aeroportuali.



-Supercar a profusione, ma su tutte svettano Rolls-Royce, Bentley e Ferrari.



-Sfatiamo la leggenda secondo la quale la polizia sarebbe molto ferrea nel perseguire gli emuli di Schumacher: la Maserati con cui ci spostavamo (guidata da "professionisti" ndr) ha percorso vivacemente il tracciato di F1, più di una volta, e per di più già allestito per ospitare il prossimo Grand Prix.



-L'Atlantis, storico yacht della famiglia Niarchos, ed il Pacha III, dei Grimaldi, sono due meraviglie, anche se opposte per il messaggio che portano. Il primo è un'autentica manifestazione di potenza (105mt, fu la risposta al Christina di Onassis), il secondo un gioiellino intriso di tradizione, leggerezza, eleganza.



-Al Sass, piano bar che tira molto tardi, il bar è rivestito da bottiglie di vodka con un cartellino sopra: è il nome del cliente e la data di acquisto, così che la sipossa dilazionare a piacimento.



-Per quanto riguarda le "Vodka Wars", la battaglia monegasca è stata vinta (e largamente) da Grey Goose. I francesi, qui, hanno sicuramente dettto legge.



-Il Jimmy'z è un gran bel locale, ben frequentato e divertente. Peccato per il servizio penoso, soprattutto se rapportato a quanto è caro.






Weekend divertente, comunque, e decisamente sopra le righe, ma qui il racconto non può proseguire.






JS






Saturday, April 25, 2009

Salone del mobile 2009: a brief report


Anche se forse non dovrei dirlo, quest'anno non sono andato in Fiera a Rho. Ho preferito vivere il Salone da fuori, o meglio da dentro. Forse perché ultimamamente sono meno interessato ai progetti e molto di più a ciò che succede alle loro spalle.


Veniamo subito alle buone notizie: come saprete già il clima economico internazionale mi ha preoccupato più del dovuto, in questi mesi si è sentito dire di tutto, improvvisamente sono tutti diventati economisti e chiaroveggenti della domenica ed il sentimento più diffuso è stato il pessimismo, la paura che il peggio non sia ancora alle spalle. "Il business è fermo", "Hanno tutti paura", "Che dio ce la mandi buona". queste le frasi più frequenti. Dove stanno, quindi, le buone notizie? Beh, al Salone, in questi giorni, sembrava che la crisi non fosse mai esistita. Lo show è andato in onda come previsto, forse meglio del previsto. L'iperbole mediatica e di partecipazione fisica al Salone del Mobile non ha accennato a diminuire, se possibile quest'anno è stato ancora più travolgente. In Zona Tortona le strade erano più affollate che mai, la gente comune si mescolava agli addetti ai lavori (accorsi da ogni angolo del globo) per succhiare un po dell'energia positiva che questo Salone ha portato per le strade. Quello che si percepiva era positività, entusiasmo, voglia di fare, quei sentimenti peculiari di chi, per mestiere e vocazione, vuole cambiare il mondo. Quei sentimenti che non possono mancare in chi non ha voglia di piangersi addosso, in chi ha le risorse mentali per invertire la rotta. Saranno anche sognatori, forse lottano contro i mulini a vento, ma l'approccio è quello giusto. Ho avuto modo di scambiare quattro chiacchiere con Alberto (si, lo stesso di The Hub), e come al solito le sue posizioni non sono mai banali. In particolare la nostra disussione "sui massimi sistemi" è virata sulla posizione della "massa" rispetto alle direzioni che il mondo sociale ha preso nel corso della storia. Le grandi masse, in conclusione, sono o no intelligenti? Riescono o meno ad imprimrimere la propria forza per cambiare il corso degli eventi? Alberto sostiene di si, e mi auguro che sia vero, perché quello che ho visto la Salone è stata una "massa" intelligente", per nulla rassegnata alla triste situazione odierna.


Mercoledì sera sono stato alla festa di Fabio Novembre al Palazzo della Triennale. Allestimento gigantesco, Jovanotti in jam session con Negramaro e Sud Sound System per allietare l'amico Novembre, vestito e ingioiellato come una rockstar, come di consueto. La folla era eterogenea e decisamente interessante; la festa è stata molto divertente, anche per merito di Vodka Wiborowa, che gentilmente offriva l esue bevande agli ospiti. Il pretesto era l'installazione "Fleur de Novembre", visionario viaggio attraverso la genesi, l'amore, il peccato. Step finale era il nuovo tavolo Fleur per Kartell, che è la testimonianza tangibile di come non sia necessario essere un buon designer di prodotti per diventare famosi. Credo che quel tavolo sia la cosa più sciatta e pretestuosa che abbia mai visto fare da un designer di quel livello. E' vero che lui sa dare il meglio quando ha a che fare con gli allestimenti di interni, ma c'è un limite a tutto.


Poi, giovedì, la consueta festa a casa di Stefano Giovannoni, di gran lunga l'evento più bello, divertente e vero del Salone del Mobile. Erano tutti, o quasi, addetti ai lavori: industriali, designer, giornalisti, uomini di mercato. Ed è stato proprio lì che sono così felice di respirare tanto ottimismo. E se lo respiri da gente come Jasper Morrison, James Irvine, Karim Rashid, Tom Dixon e Marcel Wanders è sicuramente più appagagante. Si è parlato di tutto, e lo si è fatto con il sorriso. Anche perché da Stafano non mancano mai prelibatezze e tanto meno manca il vino con cui mandarle giù. Ho avuto anche la percezione che in quella casa ci fosse più di una generazione di "uomini di design": c'erano i Maestri e c'erano i giovani che, forse, un giorno raccoglieranno la loro eredità, testimoniando quanto quello del design sia un mondo vivo e condiviso. L'esatto contrario di quello della moda, dove per lo più manca la condisione di obiettivi comuni, dove l'apparenza regna sulla sostanza.


Spero proprio che le mie intuizioni sull'ottimismo, l'entusiasmo e la voglia di cambiare le cose si riveleranno azzeccate. Anche se non lo saranno, comunque, questo è quanto mi ha lasciato nella testa il Salone. Di gran lunga il momento in cui Milano brilla di più.




JS

Saturday, April 18, 2009

Business of Green | Carbon Footprint and Mutual Funds, by Andrea Maggiani


La CO2 diventa un indice di rischio.


La scorsa settimana, tra le tante newsletter a cui sono abbonato, c’era un interessante articolo sul legame tra i fondi d’investimento e il livello di CO2 generato. Credo che vi starete domandando come le due cose possano legarsi tra loro, io mi sono posto la stessa domanda.

Trucost, una società inglese specializzata in ricerche ambientali ha di recente calcolato la carbon footprint (CF) di alcuni dei più grandi (in termini di capitalizzazione) mutual fund Americani.
La ragione di questo studio é vedere quanto un fondo di investimento è esposto al rischio di eventuali leggi sui cambiamenti climatici e i gas serra.
Come ormai tutti sanno, Obama ha inserito il problema della tutela ambientale e delle emissioni di gas serra tra le priorità nella sua agenda, questo rende concreta la possibilità di utilizzo della metodologia cap and trade (modello European Trading Scheme) per tutti gli stati federali negli anni a venire.

Trucost ha stilato una classifica dei 91 fondi più importanti in base alla CF (con una capitalizzazione totale di 1,55 trilioni di $).
Secondo questo ranking è possibile capire quali saranno i mutual funds che risentiranno maggiormente qualora verrà fissato un cap alle emissioni di CO2. Le imprese maggiormente inquinanti vedranno crescere il loro costi operativi a causa del prezzo delle emissioni, facendo così aumentare i costi di approvvigionamento energetico.

Un fondo Carbon-intensive come Fidelity Capital Appreciation Fund, secondo l’analisi di Trucost potrebbe incorre in extra costi per un valore di 125 milioni di dollari, che corrispondono al 3.32 % dei profitti (Ipotizzando un costo di $28.24 per tonnellata di CO2).
Questi sono perdite molto elevate se comparate con un altro fondo molto meno “carbon intensive” come SPDR Fund, i cui costi sarebbero stimati intorno a 8.3 milioni di dollari ipotizzando lo stesso scenario.
Per il momento Trucost non ha pubblicato tutti i dati relativi ai 91 fondi che ha analizzato, quindi non è possibile ancora avere una panoramica completa.
E’ interessante sottolineare che i migliori 5 fondi in termini di CO2 emessa, elencati di seguito, non investono in settori quali utilities, olio e gas, ma sono maggiormente focalizzati su assicurazioni e previdenza sociale.
Qui di seguito troverete i 5 migliori e peggiori fondi in termini di CO2 emessa.
Alla Prossima.

I migliori fondi in termini di CO2 emessa sono:

1. Financial Select Sector SPDR Fund -- 40 tons of CO2 equivalent (tCO2e) per million dollars in revenue
2. Vanguard Health Care Fund -- 48
3. PowerShares QQQ Trust -- 69
4. Ariel Appreciation Fund -- 98
5. Oppenheimer Global Fund -- 111

I peggiori fondi in termini di CO2 emessa sono:

1. iShares FTSE/Xinhua China 25 Index Fund -- 1,549 tCO2e per million dollars in revenue
2. Fidelity Capital Appreciation Fund -- 758
3. Janus Fund -- 744

Thursday, April 16, 2009

Cosa ci stiamo perdendo, parte 1: il calzolaio


Si fa un gran parlare dei valori che determineranno il mercato dei prodotti negli anni avenire, della necessità di una svolta concreta, a livello di coscienza di produzione, nel pensare, progettare e produrre i prodotti del futuro. Si parla di ritorno al valore intrinseco, di durabilità, di chiarezza e della assoluta necessità di imprimere una nuova forza etica globale al mercato consumer.



Bene, adesso vi racconto una storia, una favoletta ai margini del del mercato globale che credo sia indicativa a proposito di quello che rischiamo di perdere di vista.



L'anno scorso ho deciso di comprarmi un paio di mocassini cosiddetti "da battaglia", da usare tutti i giorni anche per andare al lavoro in bicicletta, dal momento che non mi sentivo di sacrificare i loafer color miele di John Lobb. Sono andato in un famoso negozio di Milano e, in linea con le necessità dette, ho comprato un bel paio di mocassini Sebago dall'aspetto "solido" e dalla lineo piuttosto pesante. Non esattamente il genere che amo, ma più che sufficiente per esaudire quello specifico bisogno. Dopo soltanto qualche mese una delle due suole comincia, di colpo, a staccarsi. Mi informo su quali fossero i migliori calzolai di Milano, e me ne viene indicato uno che passa per essere il non plus ultra. -"Mio papà ci ha portato tutte le sue Church"- mi è stato detto. E lì sono andato, in Corso Italia. Non specifico il nome perchè non è carino, però state attenti a quanto dirò di seguito, così potrete evitarlo, se lo riterrete opportuno. Questo "signore", con aria altezzosa comincia ad elogiare i pregi del suo "metodo", mi spiega meticolosamente tutto quello che accadrà ai miei mocassini. A me sta bene; gli confermo l'ordine, e passo a ritirare le scarpe una settimana dopo. Spendendo la bellezza di 50 euro. Quasi un quarto del costo dei mocassini nuovi.


Passano altri due mesi, forse meno, e la medesima suola si stacca di nuovo. Io, inorridito, e un po preso da altre cose, decido di non tornare dal calzolaio, nemmeno per le giuste rimostranze. I mocassini rimangono nell'armadio finchè mio padre non mi avverte dell'esistenza di un "grande clazolaio" ad Avenza, una delle zone più depresse della provincia di Carrara, la città nella quale sono cresciuto, e che, piano piano, mi sta facendo ricredere su alcuni stereotipi legati alla presunta superiorità delle grandi città in materia di servizi, in senso lato.


Mio padre aggiunge: -" Vai da lui, fa anche le scarpe su misura, e so per certo che ha parecchi clienti di Milano"-. Ed avere clienti "di Milano" comunque, a parte tutto, è una buona garanzia, perché certi milanesi alle loro cose tengono molto e sono abituati a scegliere il meglio.

Siamo andati in delegazione ufficiale (mio parde, mio fratello ed io) ed abbiamo avuto non pochi problemi ad individuare fisicamente la bottega. Immaginate una situazione urbanisica disastrata: strade strette e contorte, edilizia post-bellica fatiscente, palazzetti di massimo due piani e, come se non bastasse, nessun marciapiede. Le porte di case e negozietti danno direttamente sulla carreggiata. Se volessimo divertirci a trovare l'esatto opposto di Via Montenapoleone la mia scelta ricadrebbe quasi certamente su quel tratto di strada.

Finalmente troviamo la porticina, dalla quale io passavo a malapena. E non sono davvero un gigante. Una volta superata tendina eccoci all'interno del famoso calzolaio: una sola stanza, grande al massimo (e non esagero) otto metri quadrati, pareti rivestite da scaffalature sbilenche piene di scarpe, ovviamente, e piani d'appoggio di fortuna ricavati dall'accumulo di scatoloni e vecchi macchinari del mestiere. Una vecchia radio che scricchiola. L'odore inconfondibile delle patine, ma soprattutto lui, "Cane Nero". Cane Nero, il nostro uomo, ha un occhio solo, ma non ha provveduto a "colmare il vuoto" con una protesi, ha semplicemente una piccola fessura bianca. Quanto è alto non lo so, perchè lui sta seduto su di uno sgabellino alto 30 cm e spostandosi impercettibilmente su di esso copre le piccole distanze che lo separano da tutto quello di cui ha bisogno: una specie di fresa elettrica, la parete degli attrezzi, le scarpe e, ovviamente la rotella della radio. Nonostante fuori la giornata fosse molto luminosa, là dentro era penombra ed una lampadina faceva il resto, buttando la sua luce gialla. Quando entriamo Cane Nero alza l'occhio, e stacca la sigaretta dalle labbra: -"Aspettate un minuto"- dice - e continua a fresare un tacco.

In quell'interminabile minuto mi guardo intorno, scruto tra gli scaffali, e mi accorgo subito che le scarpe esposte non sono cosa da poco. Sono subito evidenti belle coppie di scarpe inglesi, alcune impolverate, altre scintillanti. Sicuramente non in linea con il luogo che le ospitava. Conocendo i miei concittadini, so per esperienza che difficilmente quelle scarpe appartenevano tutte a loro. Era chiaro che la maggior parte di quelle scarpe veniva da fuori.

Cane Nero -come lo ha ribattezzato mio padre, per la sua somiglianza con il pirata dell'Isola del Tesoro di Stevenson - ci dà finalmente la sua attenzione: -Mi faccia vedere- esordisce.

Gli mostro i mocassini di cui ho parlato prima ed un altro paio, ancora più malconcio, che avrà almeno trent'anni, al quale sono follemente affezionato. Lui guarda entrambe le paia. Sul secondo paio, guardandolo amorevolmente, dice - vedrò cosa posso fare -, a proposito del primo paio invece, scuote la testa, cercando una sigaretta. L'accende, alza l'occhio e mi dice: -chi è il bastardo che ha fatto questo?-. La risposta la conoscete, era stato il calzolaio "fighetto" di Corso Italia a milano. Mi fa vedere che le cuciture erano fatte a macchina, mi spiega che così si compromette l'integrità dell'intersiole. O meglio, non me lo spiege, me lo fa capire a modo suo. Sbuffando, scuotendo la testa e scambiando fumo con l'atmosfera del suo piccolo covo. Già, perchè non si può dire che lui fumi, piuttosto respira fumo tenendo una sigaretta sempre incollata all'angolo destro della bocca. Chi fuma così in genere è costretto a tenere un occhi chiuso. Lui non ha questo problema. Tocca la pelle della tomaia, mi dice che è secca, l'accarezza e mi fa vedere come fa lui a risuolare le scarpe. Prende un meraviglioso paio di Edward Green, le gira sottosopra a mi fa vedere cheogni punto è fatto a mano, che lo fa lui, con quelle mani nere, dure e incallite. Non appena capisce di avere la possibilità di parlare con qualcuno veramente interessato al suo lavoro comincia a snocciolare aneddoti tra cui questo è il più bello. Racconta di un cliente venuto da Milano con un paio di Church's mal suolate. Lui le ripara, il cliente è talmente contento che le porta a Londra alla Church, dove le aveva comprate, per far vedere di cosa era stato capace Cane Nero, il Pirata di Avenza. La Church si mette in contatto con lui (chissa con quale mezzo e in quale lingua), si complimenta per l'operato e gli spedisce un libro ufficiale dell'azienda, che lui tiene li in bella mostra, impolverato, ma carico di orgoglio.

Ci racconta anche che purtroppo non può più fare scarpe, perchè è morta la signora che gli faceva le tomaie, e prende un paio di scarponi da cavatore fatti a mano e su misura. Con un po di nostalgia mi fa notare i dettagli e le rimette aposto, nello scaffale più in alto.

Una volta finiti i racconti mi dice di non avere fretta, perchè - "io sono preciso, meticoloso" - sussurra. Nelle grandi città "non avere fretta" significa non poter finire un lavoro prima del weekend. Per lui non aver fretta significa: - "non prima di 20 giorni"-.

Venti giorni in cui prenderà le mie scarpe e, con tutto l'amore del mondo, le smonterà, le curerà, le cucirà, fumerà cento sigarette, ascolterà vecchie canzoni alla radio e, sono sicuro, in fondo in fondo, sarà contento di aver conosciuto un ragazzo giovane che ha mostrato interesse per il suo lavoro, per quello che forse è stata la cosa più importante della sua vita. Le scarpe. Quando guardi un grande calciatore capisci subito la sua arte da come tocca la palla, da come la tratta; quando ho visto Cane Nero toccare le scarpe ho capito che non era un mercenario, che non gli interessavano le luci della riblata, il glamour delle grandi vie commerciali, a lui interessa soltanto la sua arte.

Uscendo da suo piccolo antro buio ho provato un po di tristezza mista ad entusiasmo, come quando conosci la donna giusta troppo tardi, come quando conosci un amore a scadenza certa. Ero felice di aver trovato un uomo così, ma ero triste perché con lui non c'era nessuno, non c'era un nipote che stava lì ad imparare. Cane Nero era solo, e quando se ne andrà lascerà un vuoto, non ci sarà nessuno dopo di lui.


Ecco, è proprio questo che stiamo perdendo, l'amore per qualcosa di originale, la forza d'animo che ci vuole per tramandare un paio di scarpe di generazione in generazione. Se scompaiono uomini come Cane Nero anche chi vorrà sfuggire alle logiche del mass-market si troverà in difficoltà. Perchè sarà sempre più solo nella sua battaglia.


Quano tornerò da lui, tra venti giorni, pagherò volentieri per il suo lavoro e cercherò di rubargli qualche piccolo segreto. Poi andrò a Milano, in Corso Italia, e non mi lamenterò, farò solanto vedere a quel presuntuoso cosa significa fare il proprio lavoro. E farlo con passione.


JS

Monday, March 30, 2009

La leadership: integrità ed autenticità


Proseguendo sul tema editoriale del successo, è utile definire anche un altro elemento ad esso spesso legato: la leadership, ovvero la capacità di condurre.

Occorre innanzi tutto precisare che non saranno presi in considerazione tutti quei casi in cui la leadership è di origine "costrittiva" o "necessaria", perché c'è parecchia diferenza, appunto tra chi si trova "in charge", al comando, e chi invece è leader, ovvero chi effettivamente "conduce" qualcosa per merito personale. In estrema sintesi, c'è il comando contrapposto alla conduzione, così come è fortemente contrapposto il ruolo del capo a quello del condottiero. In molti casi poi i ruoli coincidono, e allora la situazione sarà decisamente forte: non è sufficiente essere generali per avere il rispetto dell'esercito e non basta essere padri per godere della stima dei figli, ma talvolta la combinazione è possibile.

Ancora una volta, i valori della leadership, non sono legati alla sfera individuale (come sospetto molti di voi credano) ma rappresentano un valore sociale e collettivo, perché il potere trae forza dal consenso, non dall'autoritarismo, sebbene quest'ultimo talvolta sia imprescindibilmente uno strumento necessario.
Cerchiamo di capire meglio quali sono le qualità che alimentano la leadership: i grandi leader hanno qualcosa che, quando la vedi, sai riconoscere, ma è difficile descriverlo con precisione. Di certo la leadership non ha a che fare con il carisma (anche se ne è influenzato) o con lo stile. E' qualcosa che ha a che fare con l'autenticità e soprattutto con l'integrità. E' qualcosa che ha a che fare con l'assumersi rischi personali per il bene collettivo, qualcosa che permetta agli altri di sentirsi parte di qualcosa di più grande, che esso sia una compagnia, un movimento o una famiglia. La leadership è l'abilità di sviluppare un'architettura sociale che permetta agli altri di essere compresa e seguita, un modello nel quale gli altri possano credere.


JS

Wednesday, March 25, 2009

Business Perspective | The ageing challenge, by Fabio Frisa

Vi siete mai chiesti cosa succederà alle abitudini dei consumatori nel prossimi anni?
Semplice! Invecchieranno.
Il Baby Boom degli anni 50’ si sta per ripercuotere sulla società stravolgendo gli equilibri demografici.
Gli over 65 rappresenteranno nel 2050 ben 1/3 dell’intera popolazione.
Questo significa che tutte le imprese nei rispettivi settori Industriali di riferimento dovranno prepararsi a cogliere questa “opportunità inevitabile” (il processo di invecchiamento a differenza di altri trend come il tanto “di moda” cambiamento climatico è assolutamente inarrestabile).
Parlo di opportunità perché ripensare ai modelli di offerta (prodotti e soprattutto servizi) in anticipo permetterà di cogliere una grosso fetta di domanda, peraltro molto ricca (non dimentichiamoci che il reddito di queste fasce di età è sicuramente tra i piu’ elevati).



Un esempio su tutti sono i cambiamenti che interesseranno il settore Automotive:
I produttori di automobili dovranno adattare I propri prodotti a guidatori anziani rispondendo a diversi bisogni spesso collegati a problemi di salute.
Guidatori anziani hanno bisogno di macchine di facile accessibilità facili da usare e da parcheggiare.
Alcune case hanno già iniziato a pensare avanti proponendo soluzioni anche semplici come angoli di sterzo agevolati, specchietti con angoli di visuale allargati e cruscotti larghi e chiari.
Toyota ha addirittura assunto il creatore del famoso Nintendo Brain Age video game con il compito di pensare a nuove soluzioni per aumentare la sicurezza ed il confort nei veicoli.

Fabio Frisa

The joke of the day: the hedge managers paybill


"Despite crisis, 25 top hedge chiefs earn $11.6 billion in pay. The US government hopes they will step in and buy troubled assets."


Ebbene sì, questa è la barzelletta del giorno, la cui comicità non sta tanto nelle paghe (ognuno si remunera un po' come vuole, specialmente nei fondi hedge, sono fatti suoi), quanto nella speranza che questi "signori" decidano di impiegare i loro soldini per comprare asset "tossici". Al massimo compreranno roba largamente sottovalutata, e di sicuro non lo faranno per aiutare qualcuno diverso da loro stessi. Tutto ciò, sia ben inteso, non mi turba minimamente. Farei lo stesso al posto loro.


JS

Thursday, March 19, 2009

Il Successo come fatto sociale.


Ieri sera, a cena, ci chiedevamo come si misurasse il successo di una persona. Ci chiedevamo se dovesse, in qualche modo, essere rapportato alle qualità dell'individuo, se fosse direttamente proporzionale al guadagno o alla fama o se invece il metro più preciso fosse quello che riconduce alla felicità stessa dell'individuo, alla realizzazione dei propri sogni d'infanzia. Probabilmente la risposta sta nel mix di tutti questi elementi, ma io ho maturato una personale convinzione: il successo si determina in base al benessere che ciascuno riesce a creare per sé stesso e per chi chi gli sta attorno attorno. Un grande imprenditore dà lavoro e paga a centinaia di persone, crea ricchezza, trascina l'economia del suo paese; un bravo artista diffonde il bello, fa riflettere, muove sentimenti; un medico salva le vite delle persone; un politico lungimirante garantisce stabilità e prosperità ai suoi concittadini. Una persona che si è realizzata, poi, tenderà ad essere più gioiosa e rassicurante, sarà un riferimento ed un appiglio per i suoi amici in difficoltà, tramanderà solide eredità ai suoi discendenti: eredità economiche ed eredità culturali. Il successo si determina in vita ma se è travolgente lascia traccia di sé nelle generazioni a venire. Il successo non è un fatto personale, è un fatto sociale: se non è condiviso, come un buon film, ha poco da dire. Con la sua aura deve riflettere luce, deve portare benessere, sorriso, speranza ed essere così solido da rappresentare un riferimento per chi vorrà ereditarlo. Per questo la leadership, il carisma ma soprattutto la pietas sono qualità fondamentali, applicati a qualsiasi scala di grandezza. Per questo la memoria di taluni si esaurisce quando laciano questo mondo e quella di altri, invece, riecheggia nell'eternità.

JS

Thursday, March 12, 2009

Fallen Angels



Quest'anno ho passato molto tempo in montanga, quasi ad alleviare il mio turbolento stato d'animo riguardo la crisi economica. Dalla finestra di casa si gode di una meravigliosa vista sulle montagne dell'Engadina, sull'Hotel Kulm e sulle due maestose case di rimpetto. Nei momenti di lettura aprés-ski, poi, ci lascia cullare dai robusti rombi delle turbine dei jet privati che atterrano nel vicino aeroporto di Samedan, che serve i visitatori di St.Moritz. Dico cullare, e sembrerà strano, ma la visione di quelle linee affilate, il cui splendore argenteo si infila tra le montagne, non è per niente fastidioso: è prorpio un'immagine celestiale, di potenza, di tecnica e di libertà. Niente a che vedere con il fastidioso viavai di elicotteri che strombazzano in Costa Smeralda.


Nel mese di Febbraio (che è stato particolarmente busy per il traffico aereo) però due angeli sono caduti, traditi dalla troppa neve e dal troppo ghiaccio. Due le vittime.


Spero proprio che non sia un segnale nefasto, come di certo gli aruspici lo avrebbero interpretato.




JS

Wednesday, March 11, 2009

Business of Green | CO2 City Break by Andrea Maggiani


CO2 CITY BREAK - The offer includes breakfast buffet and a carbon credit to offset carbon emissions – Welcome to Fox Hotel…

Vi domanderete cosa significa,e bbene questa è l’offerta apparsa sulla web page di un albergo di Copenhagen.
Qualche giorno fa all’interno di una rubrica di viaggi di Gambero Rosso Channel è apparso il Fox Hotel (
http://www.hotelfox.dk/) , un piccolo albergo molto stravagante di Copenhagen.
Questo albergo fa parte di una piccola catena di alberghi danese (
http://www.brochner-hotels.dkche/) che offre soggiorni ClimaNeutral.
Il procedimento metodologico che porta al calcolo delle emissioni per singola unità di servizio non è stato specificato, ma credo che comunque non sia questo il punto importante .
Ciò che va sottolineato è la bellissima iniziativa in linea con la mentalità dei popoli del Nord Europa, molto sensibili alle tematiche ambientali. Infatti un’offerta dove per 89 euro ti danno una stanza doppia, la prima colazione e la compensazione è proprio una cosa che deve farci riflettere.
Andando ad analizzare i punti dell’offerta c'è il PREZZO-COLAZIONE- CO2. In un paese poco sensibile come il nostro la gente, probabilmente, leggendo un offerta del genere, chiamerebbe preoccupata l’albergo segnalando un errore di scrittura sul sito, in Danimarca questo viene usato come leva su cui basare un vantaggio competitivo legato all' unicità del servizio offerto.
Agli effetti pratici è difficile quantificare l’effettivo successo dell’iniziativa: quanti Danesi saranno disposti a pagare anche solo un euro a notte per dormire ClimaNeutral?

Non so voi cosa ne pensiate, e se un week end a soggiorno compensato sia in linea con i vostri principi di viaggiatore; certamente la compensazione delle emissioni non è la soluzione, ma credo possa essere uno strumento utile ed efficace per sensibilizzare ed avvicinare la società ad una tematica così importante. Comunque se vi dovesse capitare di passare da quelle parti dormite al FOX.


Andrea Maggiani

Tuesday, March 10, 2009

Introducing Business Prespective




Dopo un lungo corteggiamento, Life is a Show si è assicurato (in esclusiva) il contributo di Fabio Frisa, brillante "young gun" di una nota multinazionale della consulenza strategica, in cui ricopre il ruolo di Business Consultant. La sua rubrica si chiamerà "Business Perspective" e, come già si intuisce, si occuperà di fornire quelle prospettive, dettate da istinto ed esperienza, di cui abbiamo urgente bisogno in questi tempi difficili. Il primo contributo è online di seguito. Buona lettura.




JS

Business Perspective | L'Occasione che non ti aspetti, by Fabio Frisa

Il concetto di “irreversibilità” è da sempre uno dei cardini caratterizzanti i principali mercati finanziari ed industriali.
Quante volte abbiamo visto imprese (anche di vertice) che non hanno saputo cogliere, anticipare e cavalcare certi tipi di scosse o cambiamenti del mercato, trovarsi all’improvviso relegate in situazioni competitive critiche?
In molti di questi casi fallire o essere acquisiti è stata l’unica scelta possibile per il management, mentre nei casi più fortunati l’attività è proseguita, ma nettamente ridimensionata a fronte di una rifocalizzazione su mercati locali o target di nicchia.
Per quest’ultime, l’attuale contesto economico potrebbe paradossalmente essere un’ottima notizia.
La crisi sta provocando sconvolgimenti in grado di rimescolare le carte e invertire le posizioni di forza scardinando le irreversibilità che fino a poco tempo fa erano ancora solidi presupposti del sistema economico.
E’ dunque il momento per le imprese, sopravvissute in passato a scossoni che sembravano averle messe fuori gioco, di fare leva sulla focalizzazione sul core business che le contraddistingue per scalare posizioni di mercato ai danni di Big Player, oggi “distratti” dalle grandi manovre necessarie a coprire perdite enormemente amplificate dall’esposizione globale e (molto spesso) da un Business Mix virato su strumenti finanziari a scapito del core business.

L’imperativo è quindi, per chi se lo può permettere, cogliere l’opportunità e saper leggere tra i risvolti di una “Crisi” che non porterà danni indiscriminati.

Friday, March 06, 2009

Against the crisis: Printemps Paris




Si è detto più volte in queste pagine che l'unica ricetta anti-crisi valida per chiunque è quella di sfruttare il momento per ristrutturare da un lato, e continuare ad investire dall'altro: efficienza alla base, spinta verso nuovi traguardi come orizzonte. L'obiettivo numero uno è sopravvivere; l'obiettivo numero due è essere tra i più competitivi quando comincerà la ripresa.


I grandi magazzini Printemps di Parigi (che hanno avvato un processo di radicale modifica nel 2007, quando l'italiano De Cesare è salito in sella) stanno lavorando sodo per portare a termine i lavori di rinnovamento e restyling del loro grande store di Boulevard Haussmann, che dovrebbero finire nel 2010, ad un costo approssimativo di 100 milioni di dollari. Probabilmente l'intera operazione era stata concepita in tempi non sospetti e qualcuno nel Gruppo Borletti (proprietario dei magazzini) avrà dormito sonni poco tranquilli quando si è trovato sulle spalle un onere del genere, nel bel mezzo di questa bufera finanziaria, ma non tutto il male viene per nuocere. Se l'operazione è stata pianificata bene, se è stata realista e misurata dal punto di vista finanziario, allora l'azienda non postrà che goderne, perché quando tornerà la luce sui mercati (e su quello della moda-lusso forse non si spegnerà mai), Printemps sarà la novità, sarà fresco, bello ed avrà due anni di vantaggio sugli altri.




JS