Saturday, November 25, 2006

Il buono e il cattivo




Sembra che questo mese di novembre sia stato scelto per toglierci un manipolo di miti. Oltre al maestro Altman, ci hanno lasciato anche Philippe Noiret e Jack Palance.




Le Figaro ieri titolava: "Ci ha lasciato un gentleman". Un gentleman che noi italiani abbiamo imparato ad amare: Meraviglioso in Amici Miei, immenso ne Il Nuovo Cinema Paradiso, epico e sublime ne Il Postino. Non l'ho conosciuto di persona, ma ne aveva tutta l'aria. Di essere un gentleman.

Un Oscar nel suo unico ruolo comico, in City Slickers Jack Palance era la caricatura di sè stesso, del duro, del cowboy vecchio stampo. I duri ad Hollywood, quelli veri, stanno scomparendo. Adesso senza dubbio ce n'è uno in meno.


Buon viaggio, signori.


Thursday, November 23, 2006

Adieu




E' morto Robert Altman, aveva 81 anni. Non ho mai amato Altman, conosco poco i suoi film. Di quelli che ho visto, soltanto Gosford Park mi ha lasciato qualcosa. Proabilmente perchè l'America del suo cinema aveva poco a che fare con quella chi ho imparato a conoscere. I suoi fim erano pesantissimi, inutile negarlo, e non sono qui a compilare un pianto del coccodrillo, non sono ancora tanto ipocrita. Comunque, la sensazione prevalente è quella di aver perso un maestro d'opinione.
"Mr.altman, che cos'è un culto?"
" Semplicemente un numero di persone non sufficiente per costituire una minoranza."

Friday, October 27, 2006

Chi ha bisogno di un altro Gangster?



Un ragazzino chiede a suo padre: "Papà, l'hai visto The Departed?" E il papà risponde soltanto con un ghigno compiaciuto.

Questa è quello che potrà succedere tra quindici anni, quando The Departed sarà stato già da tempo consegnato alla storia. Il Pardino, C'era un volta in America, Scarface, Casinò, Donnie Brasco, Quei bravi ragazzi: questa è più o meno la timeline del genere, con le sue Colonne d'Ercole, più ad ovest sta tutto il resto. The Departed, per la sua grandezza, sembra, a malincuore, il loro epitaffio. Sembra chiudere il circolo virtuoso dei grandi gangster, con la sua morale, per la prima volta davvero nichilista. Gli italoameriani, da sempre riconosciuti come unica alternativa digeribile della malavita, per il loro meraviglioso essere mammoni e spensierati, per la loro ricerca del benessere, della Cadillac bianca e delle bionde, lasciano il passo agli Irlandesi di South Boston. The Departed scortica la morale della malavita, qui non c'è rispetto, protezione, organizzazione, gradi, amore per il potere. Non c'è nessun senso estetico nel gesto, nessuna teatralità, nessuna posa. Tutto è mosso dalla grande mamma, Boss Costello, che agisce secondo il suo innato e viscerale amore per l'atto criminale. "Frank, perchè lo fai? Soldi e fiche non ti mancano"... "Lo so che non mi mancano, ma è da qundo ho rubato i soldi della menenda, alle medie, che lo faccio..." Nessuno lo rispetta davvero, tutti lo temono. Lui paga poco i suoi scagnozzi, non regala agi e visibilità come faceva Vito Corleone. I film di Mafia sono sulla famiglia, su Dio, sul rispetto, sulla teatralità, il vanto e la ricchezza: le corde italiane, insomma. The Departed, come suggerisce il sottotitolo, è sul bene e il male. Ma dove sta il bene? Si chiederanno in molti. Il bene sta nell'onestà e nell'integrità, davvero stupefacenti, che tutti i protagonisti tengono durante tutto l'interccio di doppi e tripli giochi, che ripiegano talmente tanto su loro stessi da annullarsi. Ad un certo punto, proprio per questa ritorsione di vizio e di forma, razionalmente, il teatrino di Costello dovrebbe cadere, ma non è così. Quello che è davvero stupefacente è l'integrità e la coerenza di personaggi, oramai smascherati, che perseverano nell'essere leali nei confronti della maschera che portano. Non sono nmai davvero leali nè mai davvero sleali. Ma è una questione di punti di vista. I departed, quelli che non ci sono più, che se ne sono andati, senza rimorsi, perchè sapevano il trapasso era la moneta di scambio per appagare al loro fame di male. I departed sperano che il bene, per contro, li coccoli lassù, visto che quaggiù si è tenuto alla larga da loro.

Scorsese ha avuto la buon'anima di consegnarci il passaggio di consegne tra due generazioni di grandi interpreti. Quando ho visto, per la prima volta, Jack Nicholson e Lonardo DiCaprio seduti allo stesso tavolo, ho avuto un brivido. Ho pensato che il cinema non dovrebbe mai essere altro da questo.

Il detective a Boss Costello: "..e adesso dove credi di andare, Frank?"

"...vogliate cusarmi, signori, devo andare a vedere gli angeli.."


Passerà molto tempo prima che qualcuno senta il bisogno di un altro film sui gangster, credetemi.

Tuesday, October 17, 2006

New York Wears Prada


Ieri sera ho visto The Devil Wears Prada, metà in inglese, metà in italiano. Inutile dire quale parte è stata più gradevole. E' divertente, accurato, lievemente parodistico. Le ragazze godranno per le scarpe di Jimmy Choo e Manolo Blahnik, che finalmente hanno della giusta centralità nella causa umana; si commuoveranno per i buoni sentimenti e si consoleranno quando il film suggerirà loro di lasciar perdere il dorato mondo della moda (morale vigliacca per lasciare un po di speranza a tutte quelle che non ce l'hanno fatta, e non ce la faranno mai). I maschietti piu curiosi invece si divertiranno nello scoprire sfumature nuove-ma-non-troppo del circo della moda e nell'ammirare la straordinaria bravura di Maryl Streep, che non imita Anna Wintour, ma addirittura le suggerisce come comportarsi. Del film non si parlerà che per qualche settimana, forse sarà ricordato soltanto per l'esordio di Anne Hathaway, che, se ci mette un po di piglio in più, può non scoraggiare l'attesa di una nuova Julia Roberts.

Ben più interessante invece è la discussione che nasce dai presupposti reali, culturali, effettivi che animano The Devil Wears Prada. Da indefesso lettore del Foglio di Giuliano Ferrara, non ho potuto fare a meno di segiure con attenzione lo spazio dedicato ad una breve anticipazione del libro di Mauro Suttora "No Sex in the City" (Cairo Editore). Il libro analizza, attraverso esperienze personali, come stanno effettivamente le cose nell Upper East Side. Cosa pensano davvero le Diavolesse vestite Prada? Suggerisco uno sguardo al blog di Mauro Suttora. (maurosuttora.blogspot.com)

Per concludere, non ho trovato sexy, nè tantomeno glamour Sex and the City. Non era specchio della coolness di NYC, semmai lo era della sua bramosia riqualificazione agli occhi della vecchia Europoa.

Devil Wears Prada è la naturale progenie di Sex and the City.

Wednesday, October 11, 2006

EYES WIDE OPEN on MIAMI











Cerchiamo di dimenticare per due ore le leggi basilari del buon cinema. La storia è banale, così come le interpretazioni. Dimentichiamo Miami Vice, gli anni 80, i colori pastello, le battute da bullo. Non troverete nulla di tutto ciò, in questo spettacolo sontuoso. Miami è dura, come la Los Angeles di Collateral, corrotta, minacciosa, buia e scintillante. Il vetro lucido dei grattacieli scuri fa da contrappasso alla pastosità delle nuvole che tuonano, senza mai esplodere, senza mai liberare pioggia purificatrice. Il cielo in trepidazione notturna mantiene l’atmosfera sospesa, onirica, spezzata soltanto dalla vernice fresca delle automobili e dai colori sgargianti delle insegne al neon, unico residuo di quel fluo che rese noto il new-deco nella città delle paludi e dei contrasti, etnici e culturali. Fuori da Miami, la Colombia, l’Havana, Haiti, tetti, cieli, cascate, mari, fiumi, ponti, navi, in una meraviglia estetica fatta di carrellate aeree, movimenti orizzontali chilometrici, zoom mai visti. Una chiarezza ed una definizione stupefacenti, grazie al digitale in alta definizione. Una fotografia sublime e vera, che passa con disinvoltura dalla natura all’artificiale, senza subirne danno. Il binomio suono-immagine è indissolubile e struggente, si tengono la mano e si sfumano l’un l’altra, per completare questo viaggio nella perfezione tecnica, dall’aria rassegnata decadente.
Scegliete lo schermo più brillante che potete, sedetevi, respirate, e aprite bene occhi e orecchie, ne avrete bisogno. Questo è uno spettacolo.
Quasi dimenticavo, una volta usciti dalla sala, non spaventatevi se, per la prima volta, avrete la sensazione di non distinguere la realtà dalle immagini che avete appena visto.
E' un effetto collaterale.

Monday, October 09, 2006

Odio Sofia Coppola. (non è vero)


Nella mia newsletter personale del New York Times si legge: “Sofia Coppola’s Paris…this city can change your mood completely…In the Marais, we went to K. Jacques, a tiny shop that specializes in all types of classic leather sandals. The simplicity of the shoes immediately conjured up images of sunning in St. Tropez…”.
Lei è una ragazza bruttina, bruttarella, figlia di papà (per davvero) che, guarda caso, ha deciso di lanciarsi nel cinema. La ricordate, sempre bruttarella, nel terzo episodio del Padrino? Piccola parte per una figlia di papà, appunto. Poi, per molto tempo è scomparsa, non vale niente, la ragazza, era li per caso. Quando papà è andato a riposo non ha avuto più un secondo di celebrità. E allora cosa ci fa adesso, tirata a lucido come una mademoiselle d’antan, nella newsletter più cool del mondo, che descrive minuziosamente i suoi spostamenti nella ville lumière?

Ha scritto, ecco perché. E quanto ha scritto! E come ha scritto! Ha rinunciato presto ad essere Face; piuttosto che rifarsi il naso importante ha preferito rifarsi l’Oscar, alla sceneggiatura, per quel piccolo gioiello di leggerezza che è stato Lost in Translation. Film divenuto un caso soltanto dopo la buona sortita al Chinese Thatre. (a milano era in programmazione soltanto al Cinema President, il più snob, il più raffinato, il più protettivo della città; due mesi dopo è stato dato in pasto agli applausi dell’ultim’ora del pubblico becero dell’Odeon). Ho amato quel film, mi ha ridato fiducia nella scrittura, una storia che non avrebbe avuto nessun bisogno di essere scritta; sta lì la sua grandezza, oltre che in uno splendido controllo delle atmosfere e dei sentimenti; un film sulla vita, sulle piccole cose, sulle sensazioni, sulle relazioni che ci tengono vivi. Quello che va perso nella traduzione è il superfluo, quello che conta si trasmette, eccome. I due erano anime senza un futuro insieme, e lo restano, di buon grado, perché in cambio hanno avuto qualcosa di speciale, indecifrabile, un sussurro di speranza.

I risultati non arrivano mai per caso, Sofia ha sudato, scrivendo, interpretando, producendo, dirigendo, da sola, con Tim Burton, Gorge Lucas, Quentin Tarantino, che le riserva addirittura uno special thanks nei titoli di coda di Kill Bill vol.2. Poi si è sentita pronta, e ci ha dato Virgin Suicides (Il giardino delle vergini suicide) sul cui giudizio preferisco sorvolare, è un’opera di indubbio fascino, ma troppo controversa, crudele e strana per essere presa da sola. Credo che debba essere inquadrata in un’ottica sequenziale, data la sua immaturità e poca immediatezza. Di certo ne resta lo spessore intellettuale. Si capiva chiaramente che la ragazza faceva sul serio.

Eccoci adesso alla terza prova, tra poco vedremo l’ultra-cool Marie Antoinette. Se tre indizi fanno una prova, allora è di questa che c’è bisogno per dare una misura effettiva al talento di Sofia Coppola. Per il momento è dato sapere soltanto che l’accento artistico ha subito una brusca sterzata; il clima patinato e burroso di Lost in Translation lascerà il posto ad un vortice di colori e brilli che ricorda molto il Baz Luhrmann di Romeo+Juliet, nell’intento di mandare a braccetto commedia, tragedia e teen-appeal.

Sofia mi sta antipatica, perché sembra fare tutto con una leggerezza che non è propria delle donne di cinema, che solitamente trascendono in climax da Guerilla Girls. Sembra essere supponente e ancora lì-per-caso. Una incosciente regina del glamour, sopravvalutata per aver fornito soltanto una prova degna di nota.

In realtà non è vero, la sensazione che provo è che ad ogni tentativo potrebbe scrivere, dirigere o produrre il mio nuovo film preferito.

Saturday, October 07, 2006

CI RISIAMO, HITCH.



Esce The Black Dalia e ci risiamo.: “…De Palma si muove in atmosfere Hitchcockiane…bla..bla..”. DePalma non è Hitckock, né tantomeno vuole esserlo, altresì dire che si ispira a lui sarebbe come dire che Norman Foster si ispira a Fidia, è ovvio, sarebbe come negare il valore della tradizione e dell’eccellenza in una qualsiasi arte applicata. La lezione dei maestri non può essere dimenticata perché entra a far parte del registro a disposizione dei posteri. In maniera automatica.

Prima di proseguire vorrei fare un breve ripasso della genealogia: Hollywood ha avuto la sua età dell’oro, dell’innocenza, grandi film, grandi dive, storie corali, destini comuni, poi il mondo occidentale ha perso la sua purezza. C’è stata la rivoluzione culturale, la ribellione, la contestazione e , per forza di cose, il cinema ha trovato nuovi interpreti. Divisi sulle Coste opposte sono arrivati Scorsese, Coppola, Milius, Altman, Lucas, De Palma e poco dopo Spielberg. Questi sono i “ragazzi terribili” che ci hanno traghettato fino a qua, che hanno riscritto le regole, che hanno creato il cinema che guardiamo oggi. Hanno salvato il cinema, per davvero. Le storia sono diventate più dure, più personali, e le tecniche filmiche sono diventate lo strumento chiave, più delle sceneggiature stesse. Hanno raccontato piccole storie di miserabili o narrato epiche avventure di popoli, sono esplosi come meteore, e non sono mai riusciti a dare alla loro opera un equilibrio qualitativo: capolavori o teneri disastri, perché venivano dallo stomaco, dal braccio o dall’occhio, non da teorie programmatiche. E’ appunto per questa “fisicità” che l’indipendenza creativa dei ragazzi è assolutamente innegabile.

Torniamo a noi, l’occhio. Già, De Palma è il più grande voyeur della storia del cinema, dopo Alfred naturalmente. E’ questo che fa di lui non un emule di Hitchcock ma un compagno di merende, un collega di vizio. I loro film non c’entrano un bel niente, le atmosfere, i toni, il registro, gli argomenti, sono totalmente differenti. Hanno in comune l’amore per il “guardare”, nelle altrui vite, nelle altrui stanze, nelle altrui passioni, vizi e segreti. Nascosti dietro il loro occhio spiano, è la loro debolezza. Un esempio su tutti per chiarire il rapporto Hitchcock-De Palma: The Rear Window e Snake Eyes (La Finestra sul Cortile, Omicidio in Diretta). Due omicidi conclamati, apparentemente sotto gli occhi di tutti, all’osservatore sembra di avere la soluzione del caso a costante portata di mano, ma ben presto si rende conto che le cose non stanno così. I due spioni ci tengono maliziosamente in scacco mostrando pian piano soltanto quello che il filtro della logica svela all’organo visivo. E’ la differenza tra guardare ed osservare. Tra il mettere lì ed il montare. Tra un movimento ed un campo lungo. Vogliamo tutti “guardare”? Bene, guardiamo, ma soltanto come e quando vogliamo noi! Controllo, controllo, controllo. E maniera. La cultura del sospetto, l'amore per l'indagine, più fisica che chimica. Meccaniche di tendine veneziane, finestre, serrature, muri, quinte e filtri d'ogni sorta, il cui abbandono a favore dei sentimenti li ha indotti più volte all'errore.
Pensate se Hitch avesse avuto a disposizione quella fantastica Dolly di 15 metri che ha avuto a disposizione De Palma in Snake Eyes, oppure se Snake Eyes avesse goduto di James Stewart e Grace Kelly. (Questo non c’entra niente, ma provate a pensarci lo stesso).


Ecco, in questo senso sono simili, nel vizio, non nella forma. Come lo sono Napoleone ed un bambino che diventa diventa il boss del giardinetto. Dimenticate le proporzioni.

Jacopo Signani





Saturday, September 30, 2006

QUANDO CI VUOLE CI VUOLE, ovvero la dialettica spettacolo-spettatore, da Hegel a Andy Warhol

Viviamo nell’epoca della sovraesposizione, della visibilità, della ripetibilità: see all, buy something.
Il marketing esperienziale è pratica ormai diffusa anche nel contesto artistico. Un film, così come un quadro, non sono soltanto opere con coscienza (o autocoscienza?) contemplativa, sono prodotti con coscienza di vendibilità. Ovvero non desiderano soltanto essere viste, desiderano essere comprate. Ecco che lo spettatore è spinto a sovvertire il suo ruolo tradizionale, è investito di responsabilità attive nei confronti dello “spettacolo”, essendo parte di esso sarà più propenso ad usufruirne. Interessante a questo punto sarebbe il raffronto con la tesi hegeliana sullo spettacolo (Fenomenologia dello Spirito, Spirito Religioso) dove l’esistenza del ruolo stesso dello spettatore è subordinata alla presa di coscienza della sua funzione dialettica,. Lo spettacolo esiste soltanto fino a che l’osservatore è passivo, dominato (per dirla con Guy Debord). Cosa succede, quindi, quando lo Spirito (come stadio dell’evoluzione hegeliana) passa dalla forma di sostanza alla forma di soggetto, ovvero all’identificazione interpretativa di sé stesso con l’opera d’arte? Prima ci fu la rappresentazione religiosa (cosciente dapprima, autocosciente poi) elitaria, poi venne la Pop Art, ferente la presa di coscienza dialettica del popolo, mastodontico erede di quel demos che rese viva la tragedia greca attraverso il suo dialogo con il coro. L’arte di Andy Wharhol nasceva con il presupposto di rendere spettacolare lo spettatore stesso, portò alle estreme conseguenze il ribaltamento dei ruoli. La sostanza diventò soggetto, innescando un meccanismo dedalico che mutò per sempre il punto di vista dello spettatore.


JS

UBERMENSCH



Da "Superman Returns" di Brian Synger: "...sono stato mandato per salvarvi...".
Superman in volo sopra la Terra con Lois Lane sente il lamento congiunto dei poveri terrestri e si proclama Messia, salvatore, non più per necessità-virtù, come eravamo sin qui abituati a credere, bensì per investitura divina, per eredità di padri che forse volevano scampare almeno a noi disgraziati epigoni la loro avvenuta disfatta. La morale nietzschiana non scampò alla morsa nazista, perchè dovrebbe scampare a quella americana. Dal rimbecillito Superman all'eletto Ubermensch, il passo è rapido e pericoloso, specialmente laddove l'adorabilmente spiantato Lex Luthor spara per mano di un galoppino islamico-buddhista-industa-non-cristiano un'arma non convenzionale di fabbricazione sovietica.

JS



Variazioni sul tema
Nell'epilogo di quella straordinaria storia d'amore che è Kill Bill c'è spazio per un po di Epos moderno: Bill vede in Superman un Oltreuomo (si badi, non Superuomo) ed in Clark Kent la personificazione della sua compassione. Resta comunque che Superman è Superman, non Klark Kent. Tarantino rinuncia alla figura messianica ma riscchia di scivolare in un'altrettanto erronea figura prometeica.


Bill a Beatrix: "Come sai, io sono un grande appassionato di fumetti. Soprattutto di quelli sui supereroi. Trovo che tutta la filosofia che circonda i supereroi sia affascinante. Prendi il mio supereroe preferito, Superman. Non un grandissimo fumetto...la sua grafica è mediocre. Ma la filosofia...la filosofia non è soltanto eccelsa: è unica. L'elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e il suo alter ego. Batman è, di fatto, Bruce Wayne. L'Uomo Ragno è, di fatto, Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker. Deve mettersi un costume per diventare l'Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l'unico nel suo genere. Superman non diventa Superman. Superman è nato Superman. Quando Superman si sveglia al mattino è Superman. Il suo alter ego è Clark Kent. Quella tuta con la grande S rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti. Quello che indossa come Kent, gli occhiali, l'abito da lavoro...quello è il suo costume. E' il costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? E' debole, non crede in se' stesso ed è un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana."

Con ogni probabilità Don Siegel non ha mai riflettuto sulla qualità del mandato della sua creatura. Forse Superman è solo un imbecille. Con buona pace di Bill.

Friday, September 29, 2006

BE FABULOUS*



Ieri, giovedi 28 Settembre 2006, Moet et Chandon ha fatto fuoriuscire dalla lanterna della Statua della Libertà migliaia di litri di champagne. La statua, fresca di restauro, era più illuminata del solito. A 17 giorni dalle celebrazioni del primo lustro della nuova America, una compagnia francese seppellisce la tragedia con le bollicine. I pesci dell'Hudson gridano al miracolo e ringraziano i francesi, che passano loro champagne, al posto delle solite acque nere.
Be Fabulous. Recita qualcuno.

JS

LA BIBBIA DEL RADICAL CHIC


Il New York Times perde copie e credibilità ma resta il giornale più glamour per non capire gli Usa. Pendiamolo quindi a riferimento.

The Queen

However Heavy It Gets, Wear a Crown Lightly
By MANOHLA DARGIS
Stephen Frears's sublimely nimble evisceration of the British royal family pries open a window in the House of Windsor around the time of the death of Diana, Princess of Wales.

This toughness is bracing, at times exhilarating, and it also reminds you of just how very good a director Mr. Frears can be; certainly it’s a relief after the shameless pandering in his last venture, “Mrs. Henderson Presents.” The new film serves as a return to form for the director not only of “Dangerous Liaisons” and “The Grifters,” both of which share with “The Queen” an interest in toxic tribal formations, but also of more freewheeling ensemble entertainments like “Sammy and Rosie Get Laid.”

The Black Dahlia

In a Noir Los Angeles, Murder Most Lurid

By Manohla Dargis

THE union of Brian de Palma and the murdered woman known as the Black Dahlia should have been a marriage made in movie heaven or, preferably, hell. A master of modern horror, Mr. De Palma has a flair for the frenzy of violence, specifically when visited on the female body, which makes him seem an ideal fit for this spectacularly cruel crime. At their finest, his films are marvels of virtuosity, alive to the contradictory, at times disreputable pleasures of the movies. Blood runs through his work, but so does juicy life. In The Black Dahlia though, that life has been drained from the filmmaking, much as the blood was drained from the victim’s body.

Manohla Dargis ha iniziato a pubblicare nel 1987 per "The Village Voice", dopo esperienze ad "L.A. Weekly" ha assunto la direzione editoriale della movie section per il "New York Times". Oggi è una delle più autorevoli critiche degli Stati Uniti.

A.O. Scott collabora dal 2000 con il "New York Times". Probabilmente il più grande critico cinematografico vivente.

Perchè scegliere queste due voci straniere? Perchè sono in anteprima, e per un po di solidarietà verso il decadente radical chic. Non me ne voglia Alessandro Porro. Avrà voce.

Per finire, mi piace pensare che l'inglese non sia un problema.

COMING SOON ON THEATERS


La vita è uno spettacolo.
Potete scegliere la via più semplice, ma non indegna, di
essere spettatori accorti, oppure quella più difficile, quella
di prendere la penna in mano ed essere sceneggiatori della
propria esistenza. L'importante è non lasciare sul tavolo
il coltello della critica.

Jacopo Signani Corsi