Sunday, November 30, 2008

The Orphanage - El Orfanato


Produce Guillermo -Pan's Labyrinth- del Toro, dirige il giovane spagnolo Juan Antonio Bayona, brilla l'affascinante protagonista Belen Rueda. I bambini fanno sempre molta paura, da The Others, a Shining a The Ring, e da queti si trae più di uno spunto. La struttura è identica a The Others e si può dire pure che qui non si è inventato nulla, ma d'altra parte questo film dimostra che si può fare bene anche senza essere originali. Gli elementi della tradizione ci sono tutti, dalla vecchietta malefica, al faro, alla scogliera (Hitchcock insegna) alla "phantom manor" disegnata dall'architetto dell'incubo. Le porte scricchiolano, i rumori sinistri abbondano, i protagonisti si dividono tra chi "crede" e chi "non crede". "Non bisogna vedere per credere, ma credere per vedere" suggerice ad un certo punto la (bravissima) medium che guiderà la mamma disperata per la scomparsa del figlio attraverso il sinistro, ma poi del tutto giustificato, mondo del paramormale. The Orphanage è un film che spaventa, che coinvolge, e riesce anche a finire chiudendo il cerchio perfettamente, evitando quella fastidiosa tendenza del thriller modermo a mettere tutte le spiegazioni ammassate nel finale (dove lo spettatore spesso finge di aver capito per non sebrare il più stupido della sala). Si sta inoltre ben alla larga dal solito doppio-finale, che illude di essere happy ending ma poi vira nell'ultma inquadratura verso la perpetuazione del male, lasciando aperti scenari per il seguito.

Conferma dell'ottima salute e del coefficiente di esportabilità del cinema spagnolo, che riesce a sfruttare i capitali americani attraverso i suoi "infiltrati" (Del Toro, Amenabar ecc..) per dar voce ai giovani talenti. Candidato all'Oscar come miglior film straniero.

Da vedere a luci spente.


JS

Friday, November 28, 2008

Baz Luhrmann's Australia: Koons and Murakami's kitsch?



Manhola Dargis: "[...]Luhrmann's use of culturally degraded forms both here and in earlier films doesn't register as either conceptual strategy or a cynical commercial ploy or some combination of the two, as it can with art world jesters like Jeff Koons and Takashi Murakami, who have appropriated kitsch as a (more or less) legitimate post-modern strategy [...]"

Insomma, abbiamo capito che secondo lei Australia è un film sincero, un film che non utilizza gli espedienti estetici (kitsch?) su base programmatica, per ottenere il consenso del pubblico, ma è pura espressione, quasi un testamento, dell'amore di Luhrmann per il cinema, per la sua maestosità, per i suoi cliché da blockbuster. Prima di proseguire su questo argomento sarebbe quantomeno opportuno vedere il film, in uscita il 5 Dicembre.

Quindi passiamo alla seconda parte: cosa c'entrano Koons e Murakami con Baz Luhrmann?
Luhrmann è il cineasta del pop rivisitato, a volte del post-pop, spesso del retro-pop, è un tritatutto di immagini storiche e contemporanee, di retro-moderniso e di neo-retrò. Mette in scena vecchie immagini ripulite o nuove immagine sporcate. In Luhrmann è evidente il tentativo di stare dalla parte del pubblico, di mettere in vetrina, senza sottosignificati, tutti i significanti (SIGNIFICANTI!) che sono o sono stati a cuore a diverse generazioni di spettatori, lettori ed ascoltatori. Romeo vestito all'hawaiiana, "local god" rockettaro e da fotoromanzo (il miglio diCaprio di sempre), d'una tragicità immediata e contemporanea, un Moulin Rouge da luna park, tirato a lucido e mixato con una punta di tango; una Parigi cartoon ed una Verona Beach, come la più cool Miami Beach. Baz, figlio di proprietario di un cinema, è un vero amante dello spettacolo, della visione, dell'ascolto e dell'azione, ed ha a disposizione uno dei mezzi più versatili: il cinema. Ne ama la storia, i miti, le rappresentazioni più iconiche, ma gli piace anche Madonna, l'India, Shakespeare, è come un ragazzino che colleziona poster nella sua cameretta: Micheal Jordan con Bruce Springsteen, Marlene Dietrich, Nicole Kidman e Kurt Cobain. Crede nell'intrattenimento (memorabile le reinterpretazioni di "Smell like teen spirit" e "Lady Marmalade" in Moulin Rouge) e nel musical, nell'immagine e nel canto, nella recitazione e nel colore e fa del suo meglio per dare al pubblico una ricetta semplificata di ciò, ma soprattutto senza secondi fini critici.





Koons e Murakami sono anch'essi artisti figuativi post-pop, perchè reinterpretano il pop, ma attraverso un linguaggio critico. Koons ha sposato Cicciolina, ha avuto un figlio da lei, poi l'ha lasciata. Non credo che ami il pop come lo ama Luhrmann, piuttosto credo che lo odi, e lo renda grottesco per questo. I conigli-balloon sembrano teneri, ma quando li tocchi ti accorgi che sono di metallo fuso, sono duri e freddi, così come la (vuota?) cultura pop quando ti accorgi che brucia miti come fiammiferi. Il gigantesco cagnone di fiori o lo stesso coniglio gigante, non sono teneri puppies, sono grandissimi, ti guardano dall'alto verso il basso, sono moderni mostri, aggressivi ed onnivori. Poi, se vorrete dare un'occhiata alle opoere di Takashi Mukarami, vi sarà chiaro quanto, dietro ai coloratissimi cartoon ed anime tridimensionali, si celi un pessimismo orrorifico che poco ha a che fare con l'esaltazioni dei principi del pop. Laddove invece lo sguardo di Murakami si fa più lucido ed adulatorio, i segni pop restano comunque pervasi da un evidente senso critico. In Koons e Murakami quindi, mostrare il la cultura popolare espansa non è tesa all'esaltazione quanto alla critica ed alla degenerazione. I cartoon, i fumetti di Roy Liechtestein erano un'alta cosa, insomma. E Baz Luhrmann, rispetto a questi artisti è davvero lontano, soprattuto nelle intenzini, rappesentando un occhi buono e disincantato sulle "futilità" formali che tuonano nella nostra cultura postindustriale.
JS







Sunday, November 23, 2008

Business of Green - Lifecycle, by Andrea Maggiani


Prendere coscienza della proprio personale Carbon Foot Print è ormai diventata un’operazione semplice è immediata, basta andare su Google scrivere CO2 calculator ed ecco come per magia spuntare un infinità di risultati.
Non voglio entrare nel merito tecnico dei parametri che utilizzano e di quanto siano o meno corretti, ma mi vorrei soffermare sul quanto questo fenomeno stia crescendo e di come gli individui utilizzino questi strumenti per avere un’idea di massima sugli effetti del proprio stile di vita sull’ambiente.
Già da qualche tempo la Carbon Trust, ente facente capo al Governo Britannico, ha lanciato la Carbon Reduction Label (http://www.carbon-label.com/), un etichetta che serve a rendere pubbliche le emissioni di CO2 sui prodotti e servizi.
L’idea di base è avere accanto alla tabella dei valori nutrizionali di ogni prodotto la carbon label con l’ammontare di CO2 generata dal prodotto.
La Walkers, azienda britannica leader sul mercato delle patine fritte , ha lanciato sul mercato il primo pacchetto di patatine Walkers Cheese & Onion Crisps con l’indicazione di 75g di CO2 .
Questo valore è stato ottenuto attraverso un processo d’analisi della lifecycle del prodotto dalle prime fasi di coltivazione delle patate fino alle fasi di smaltimento in discarica del pacchetto.
Oggi anche supermercati Tesco ha aderito all’iniziativa con un programma pilota per utilizzare la Carbon Label su tutta la linea di prodotti.
Credo che questo fenomeno sia al momento un ennesimo giochetto d’immagine e di comunicazione, ma non è da escludere che in un futuro non molto lontano non staremo solo attenti a guardare le etichette low fat, ma anche quelle low carbon.


Andrea Maggiani

Friday, November 21, 2008

Funny Games: estratto di un meccanismo



Sui motivi della decisione da parte di Haneke di ri-girare Funny Games esattamente uguale a quello originale (sempre suo) potremmo stare a disquisire per ore. Da parte mia non l'ho capito, comunque mi ha fatto piacere rivedere un film molto poco convenzionale sia dal punto di vista semantico che dal punto di vista tecnico, un film dove la violenza non si pone come spunto sadico o voyeuristico ma come incarnazione reale di sè stessa. Dai due ammiccamenti del carnefice alla macchina da presa, ma soprattutto dal bellissimo dialogo finale, si coglie il messaggio del film: se c'è un universo reale ed uno di finzione, questi coincidono nel momento in cui l'osservatore porta a termine il suo ruolo, quello di osservare. La "fiction" diventà realtà nel momento stesso in cui puoi guardarla, esattamente come per Warhol la fama di dipanava contestualmente al gesto della visione. La violenza in Funny Games, così, appartiene a chi la sta osservando, che diventa complice. In più di un momento Haneke - e qui sta la grandezza del film- ci invita a non guardare, ci costringe ad uno sforzo, per esempio, per trovare nell'inquadratura il corpo massacrato del figlioletto, che è volutamente mantenuto in posizione semicelata nella lunghissima sequenza del massacro; è lo stesso angelico assassino, poi, che ci chiede un'opinione, una previsione sulle sorti della malcapitata famigliole, gurdando dritto in camera. In questo Funny Games può essere considerato un'opera sperimentale nella forma, nel modo di raccontare.
Scendendo nel dettalgio -e qui concludo- mi piace portare all'attenzione un espediente narrativo di classe assoluta, che si materializza in quell'oggetto classico in fatto di assassini che è il coltello.
Il coltello da cucina viene portato alla nostra attenzione tre volte, distanti tra loro nel corso del film: la prima è quando il bambino lo chiede alla mamma e lo porta in barca; in questa scena l'oggetto fa la sua entrée con tutti gli onori del caso. La seconda volta godrà addirittura di un primo piano, quando cadrà inavvertitamente sul fondo della barca. Lo spettatore a quel punto è certo che quel coltello avrà un ruolo fondamentale nella soluzione della contesa e crede di tirare un sospiro di sollievo quando Naomi Watts, trasportata dagli assassini, lo recupera sul fondo della barca e silenziosamente comincia recidere le cime che la tengono in trappola. Ecco, come nella più classica tradizione, l'eroina si appresta a ribaltare le sue sorti, magari morirà anche lei, ma noi spettatori ci stiamo preparando a vedere quantomeno una lotta in equilibrio precario. Eh no, invece! Lei viene gettata giù dalla barca con incurante disprezzo, con sufficienza, legata, mentre Pitt sta serenamente discorrendo d'altro con il suo socio.
Questo significa essere asciutti, sorprendenti, questo significa
saper giocare con il linguaggio del cinema.

JS


Thursday, November 20, 2008

Inside every story, there is a beautiful journey





Ieri ho ritirato alcune camicie dalla sarta. Erano già belle prima, ma ho voluto farle correggere, stringere un pochino in alcuni punti. In quella serie avevo osato un po, chiedendo di avere un modello più largo, meno sciancrato sui fianchi, meno stretto sulle braccia, per eliminare dalla composizione qualsiasi influenza dettata dalla moda. Il risultato fu bellissimo dal punto di vista formale, totalmente originale, studiato nei minimi dettagli, i colli erano stati ridisegnati da zero, di una rigidità perfetta, dalla superficie piacevolmente imprevedibile. Sembravano vissute già appena nate, avevano una fortissima carica storica. Purtroppo però, una volta indossate, l'effetto estetico non fu come quello che avevo sperato, la ricerca aveva prodotto un risultato cristallizzato, bello da vedere ma non da portare. Insomma, quelle camicie necessitavano di una forza interiore, di una sicurezza che forse non avevo ancora, ecco perchè adesso sono state leggermente modificate.
Sembrerà una disquisizione folle, ma credo che proprio qui stia il centro emotivo del bespoke: la relazione indissolubile tra il sarto, l'opera ed il committente, quell'energia che manca completamente quando ci si affida agli "stilisti", che, come spesso ricordato, si occupano di svolgere quel lavoro per noi. Su queste pagine si è discusso spesso di camicie su misura, e con i miei amici che mi chiedono consiglio ne parlo a mia volta; ognuno ha i suoi dubbi, le sue domande, le sue aspettative, ognuno cerca la verità assoluta, la perfezione, ma queste cose non esistono, almeno non in termini assoluti. La camicia, così come qualsiasi altra cosa, è fatta da chi la porta, e tanto più è in sintonia con chi l'ha progettata tanto più essa sarà stata un buon lavoro. Ogni taglio ha la sua storia, ogni camicia racconta il suo tempo, che deve essere quello del committente. Chiaramente qui si ragiona a partire da livelli d eccellenza, stiamo spaccando il capello in quattro, e non è detto che questo procedimento si addica a tutti, a quelli che vivono questo argomento con più leggerezza. Nella foto che vedete qui sopra, tratta da una famosa campagna di Louis Vuitton, la camicia di Francis Ford Coppola (probabilmente di lino) è un magnifico esempio di quanto appena detto. Quelle maniche cosi larghe, quella ostentata morbidezza generale, non è roba da tutti, "noi" saremmo stati a disquisire per ore con la sarta per asciugarne la linea, ma lì è perfetta perchè lui ha lo spessore storico e morale, la sicurezza per portarla. Quindi, sebbene quella camicia possa essere tacciata di esuberanza e mancata cura, in realtà è semplicemente conforme a chi la sta portando. E' così e non potrebbe essere altrimenti. Quando la ricerca si fermerà, allora saremo certi che quanto abbiamo fatto sarà certamente il miglior risultato possibile, ma per fortuna di strada da fare ce n'è ancora molta.

JS

Tuesday, November 18, 2008

Super Powers



Dopo tutte le discussioni sulle tecniche narrative, sulla scrittura che precede la visualizzazione, guardatevi questo corto. Guardate come funziona. E' stupendo.

Saturday, November 15, 2008

Quantum of Solace.


In un batter d'occhio dal lago di Garda alle Cave di Carrara per finire a Siena, accredidata. Proprio come in un batter d'occhio svaniscono le aspettative di fosforo create da Casino Royale, che aveva portato James Bond nel 21esimo secolo. Ethan Hunt, Jason Bourne, James Bond, non c'è piu differenza. In Casino Royale avevamo accolto di buon grado l'approfondimento sulla genesi umana del semidivino Bond, che mostrava la sua natura terrena, il suo dolore per giustificare quel distacco, quel disincanto che lo avrebbero poi reso celebre. Quantum avrebbe dovuto essere un passo di avvicinamento verso l'acquisizione dell'aura divina di 007, invece, purtroppo è stato la dolorosa conferma che il nuovo Bond è proprio come tutti gli altri picchiatori di strada con la differenza che è marchiato Savile Row. In buona sintesi il film è un susseguirsi di botte da orbi e di azione montata strettissima, dove non si sogghigna (si, si scrive con due "g") neppure per i gadget del defunto Q. Bond è sempre stato particolare perchè non è mai stato animato dal desiderio di vendetta per compiere le sue gesta (seguendo A.O. Scott, oggi sull'International Herald Tribune) e questo distaccamento ne ha potenziato la libertà di azione in fatto di ironia, scanzonatezza, quel tono farsesco che ha sempre fatto di Bond un eroe al tempo stesso democratico ed altamente snob. Quantum of Solace, quel "quanto", quel "pochino" di conforto di cui James ha bisogno per continuare a mietere vittime è esattamente l'antitesi della filosofia bondiana. A questo punto sarà molto difficile rimettere in piedi la serie e la mia paura è che il bravissimo Daniel Craig sia presto bollato dal triste timbro "George Lazenby". Non ho mai amato la saga di 007, la mia passione era nata con Casino Royale, film che ho amato, visto e rivisto, Quantum mi ha riportato dove stvo prima, ovvero tra quelli che guardavano Bond in DVD ad un anno dall'uscita nelle sale. Ma forse è giusto così, è giusto che 007 torni ad essere uno scialbo divertissement, come è sempre stato. Per finire, i titoli di testa e la canzone di Alicia Keys, sono bellissimi.


JS


PS

Quella scena alle nostre cave di marmo avrebbe potuto quantomeno essere accreditata, Carrara, Italy. Santo cielo!

Friday, November 14, 2008

What else?


Forse è proprio lui, Brando, quello che mi manca di più. Girovagando mi sono imbattuto in questa foto. Adesso ditemi chi non lo invidia.

Thursday, November 13, 2008

Enron Corp. and the missed opportunity


Perchè mi sembrava di averlo già visto, questo filmino della crisi finanziaria? Perchè non mi sembrava niente di nuovo? Probabilmente perchè non solo io, ma tutto il mondo, aveva già visto il trailer, o forse il teaser, di questa colossale tempesta. Era il 2002, ed il titolo del trailer era "Enron: da 86 dollari a 26 centesimi in pochi giorni", scritto e diretto dalla premiata ditta Lay e Skilling. Sebbene le dimensioni del disastro fossero ben più modeste, il seme che le animava era il medesimo, il plot non cambiava di molto e si poteva riassumere così: finanza creativa, ma per davvero. Giusto per chi non ricordasse, Enron corporation, una delle preime 10 multinazionali degli Stati Uniti, vide decuplicare il proprio valore azionario in pochissimi anni, utilizzando prevalentemente due strumenti: la fantasia ed il mark-to-market, ovvero quella simpatica metodologia per cui un'azienda è autorizzata da un ente revisore (in quel caso la poi fallita Arthur Andersen, da una cui costola sarebbe poi nata Accenture Consulting) a mettere a bilancio quello che vuole, sulla base della parola e della fiducia, anche accordi appena stipulati, tradotti in guadagni ipotetici. In sintesi Enron sarebbe dovuto essere il più grande fornitore di energia (gas, elettricità) degli USA, ma in realtà basava ipropri profitti da un lato sulle speculazioni del mercato energetico e dall'altro sulla truffa finanziaria vera e propria. La truffa era orchestrata dalgeniale Andrew Fastow, il cui compito era creare una fitta rete di società affiliate che coprissero le malefatte di Enron, rendendole intracciabili, ed ingoiassero i profitto in un buco nero dal quale attingevano i soli alti dirigenti. Insomma qui eravamo di fronte alla truffa più geniale e colossale della storia della finanza e dell'industria, questi signori accumularono profitti indicibili SENZA PRODURRE NULLA. Tanto geniali che il documentario su di loro si chiamò "Enron: the smartest guys in the room".

Tutto questo racconto per farvi capire che non si trattò di un'inezia, persero il lavoro e la pensione più di 20.000 persone e quella che cadde fu una delle più grandi società del mondo. La vicende ebbe eco mondiale e la questione sulla finanza creativa godette di massima esposizione mediatica.

Sei ani dopo, non cinquanta o cento, siamo alle prese con lo stesso problema: la creatività applicata laddove ce n'è meno bisogno. Viene spontaneo chiedersi perchè nessuno li abbia fermati in tempo, quei ridicoli mutui, quei ridicoli giochini. Ma soprattuto perchè i responsabili non abbiano imparato nè ricordato nulla della stagione di Enron. Una opportunità perduta.


JS

Wednesday, November 12, 2008

Vodka Wars III - The XO


Ci risiamo, e non crediate che io beva vodka dalla mattina alla sera, anzi, in questi ultimi anni sto addirittura cercando di abbandonare quel circolo virtuoso fatto di notti e bling-bling. D'altra parte l'indagine sul mercato della vodka premium sembra interessare un gran numero di persone, quindi ogni qual volta mi imbatto in qualcosa di interessante non posso che riportarla.

Ecco un breve estratto di un articolo di Businessweek (consultabile anche online qui) che parla di una grande vodka super-premium francese (si, come la Grey Goose) distillata nove volte e filtrata attraverso pietre naturali della regione dello Champagne. Il nome è Jean-Marc XO Vodka. Bellissimo il parallelismo con gli Hipsters, quel passo avrei potuto scriverlo io.


"Premium and super premium vodkas appear to be the hottest thing in drinks these days. And it�s a shame. Buying these over-priced, over-hyped bottles is right up there with kids playing video-games at 3-years old, $100 baseball gloves for seven-year olds and the fact that Ashlee Simpson gets to make a living at something other than cleaning hotel rooms. Do me a favor: Keep the young hipsters drinking $60 bottles of vodka and $20 cocktails away from me, especially if they are walking past a Salvation Army bucket without dropping something in. By the way, if those same hipsters are buying Ashlee Simpson CDs and don�t know who Adolph Menjou is�keep them an extra ten feet away."
Stando con l'autore del pezzo, non posso che sottoscrivere tutto, rilevando che la maggior parte degli acquisti di quelle bottiglie avviene nei locali notturni, dove molta gente (giovanissima) spende fortune in bottiglie-status, spesso risparmiando su beni di maggior necessità.


E' chiaro che le fasce di prezzo che crescono con maggiore continuità e sicurezza sono, anche in fatto di wine&spirits, quelle di fascia alta ed altissima, ma a questo punto viene da chiedersi quanto essse siano profittevoli, dal momento che aumentano, sì, le quote di mercato, ma comunque in riferimento ad una stragrande minoranza sul totale del mercato. Crescere del 4% sulla base, diciamo, di un 5% sul totale, non è come crescere del 2% su un mercato di riferimento del 95%. Credo che la verità stia nel mezzo e che presto anche qui si arriverà alla saturazione.


JS

Tuesday, November 11, 2008

The Global Luxury Survey - TIME Magazine


Su Time (Style and Design Issue Fall 08) compare un sondaggio piuttosto superficiale ma comunque indicativo sulle tendenze del mercato del lusso. L'indagine riguarda il mercato dei consumatori super-affluenti Europei dai 25 ai 64 anni, che rappresentano il top 10% nella loro nazione di apprtenenza. I mercati analizzati sono stati: Spagna, Italia, Francia, UK e Germania.

Quello che viene fuori non è poi così sorprendente, ma alcuni spunti sono degni di nota:



  • Gli spagnoli sono i prossimi big-spenders. Vedono i loro guadagni crescere con la crescita del paese, e desitneranno gran parte di essi all'acquisto di beni di lusso.



  • Gli Italiani sono considerati i più "coscienti" ed i più informati, hanno finalmente superato la fase dello status-symbol e considerano il lusso un modo per esprimere se stessi; il risultato è che si concentrano sull'acquisto di accessori. Le boutique italiane, in controtendenza con gli altri paesi, sono quelle che lavorano di più. Hanno anche il miglior feeling con la rete.



  • I Francesi, dal profilo molto simile agli italiani, anche qui si dimostrano nazionalisti, preferendo brand di casa loro (Lacoste, Chanel, Dior, YSL). Molta attenzione alle automobili ed ai centri benessere.



  • Gli inglesi sono i più ricchi, ma nonostante questo sono i più parsimoniosi ed esperti come gli italiani. La moda ha per loro peso minore, dal momento che preferiscono oggetti duraturi, di qualità e design, o viaggi di prima classe. Ancore forte la presenza di vini e liquori. Insomma, per gli inglesi moltop più esperienza che materia.



  • I tedeschi, come era logico aspettarsi, rimangono fossilizzati sulle automobili (i primi 5 brand sono BMW, Ferrari, Porsche, Rolls-Royce e CK). nella moda resta forte l'influenza italiana.


Il dato più interessante resta però, per tutti, quello della dicotomia tra il "what they own" ed il "what they want to own". In tutti i casi si acquista una cosa ma se ne desidera veramente un'altre. Come i francesi, che posseggono Lacoste, Hugo Boss, Chanel, Dior ed YSL ma vorrebbero avere Prada, Gucci , Versace e Giorgio Armani. Questa è un'ottima indicazione per il made in italy, che rimane in testa ai desideri di tutti.

Per concludere si rileva che, nonostante tutto, la gente continua a comprare le stesse, poche, cose, ovvero scarpe, occhiali, borse, al massimo camicie e magliette.

Che serva di lezione a chi dico io.


JS

Monday, November 10, 2008

Business of Green - Low Carbon 100 Europe® Index by Andrea Maggiani



Oggi il mondo economico finanziario guarda sempre con maggiore attenzione il Carbon Market, questo perché nuovi e stringenti leggi, legate alle emissioni di CO2 sono alle porte. Nel 2009 sarà un anno cruciale per il Carbon Market in Europa, infatti a Copenhagen si incontreranno tutti i paesi Europei per decidere cosa ne sarà del protocollo di Kyoto e cosa cambierà nel post 2012, fine del secondo “commitment period”. Per quanto riguarda gli U.S, la vittoria di Obama apre nuovi scenari, infatti le imprese saranno assoggettate ad un sistema di Cap and Trade, dove la prima allocazione sarà gestita con un asta, quindi i premessi di emissione avranno un costo iniziale che sicuramente avrà effetti non trascurabili sulla competitività delle imprese Americane. Questa incertezza sul futuro e l’importanza di poter valutare la CO2 come un vero e proprio asset aziendale, ha spinto il 30 ottobre NYSE Euronext e BPN Paribas Asset Management a lanciare a Londra un nuovo indice, che contiene le migliori 100 compagnie Europee Blue-Chip con i più bassi valori di emissione di CO2 nei vari settori selezionate tra le più grandi 300 compagnie Europee . Vodafone, Royal Dutch Shell, Roche, Nestle e BP, sono solo alcune delle multinazionali che sono presenti nel Low Carbon 100 Europe® Index. Questo testimonia il grande interesse degli investitori per le aziende che stanno portando avanti strategie volte al raggiungimento della “carbon efficency”. Infatti si è stimato che le 100 compagnie del Low Carbon 100 Europe® Index hanno dei valori di emissioni del 40% inferiori rispetto a quelle che sono state escluse. L’indice che ora è stato sviluppato per il mercato Europeo sarà con ogni probabilità applicato anche in altre regioni.
Andrea Maggiani

Thursday, November 06, 2008

Happy birthday, Mr. President.





“Those who make peaceful revolution impossible will make violent revolution inevitable.” - JFK




Il Foglio lo chiama cretinismo storico-epocale, quell'approccio ridondante e retorico che sta connotando la vittoria di Barack Obama, ed invita alla moderazione: "Ok, stiamo facendo la storia, ma non esageriamo". Si dice che la campagna di Obama sia stata la più costosa della storia, soprattutto perchè ha dovuto gestire all'unisono un numero di media mai visti prima. Il battage web è stato senza precedenti, così come il potentissimo passaparola che ha generato. La campagna è stata globale, per la prima volta. Il fund raising è stato capillare, ha sfruttato anche le offerte di 5 dollari, che hanno fatto del volto di Obama un'icona pop come Michael Jackson. La sua figura è stata idealizzata in un'iperbole di considerazioni basate sul suo aspetto e su quello che da lui si credeva di ottenere piuttosto che sulle reali posizione assunte dal leader democratico di fronte alle numerose "issues" che adesso si prepara a fronteggiare. Nessuno era davvero informato sulla politica di Obama ma tutti lo amavano. Change, cambiare, tanto per cambiare, e questa è un'operazione pericolosa. C'è chi dice che "il presidente debba avere carisma ed idee, l'operatività spetta allo staff". Il testa a testa è durato due anni, due anni in cui insieme allo stato finanziario si è aggravato lo stato morale di una nazione, e forse è proprio per questo che la gente ha ignorato la sostanza operativa e si concentrata sulla dimensione spirituale ed umana dei candidati. E' da questo punto di vista che Obama era davvero imbattibile, perchè andava oltre le barriere e gli schieramenti, Obama era, ed è, il nuovo, il cambiamento, la speranza. Di che cosa, però, non è dato saperlo. Ed e qui che sorgono le consideraioni più spinose: l'America, come nazione, ma ancor di più come democrazia, si è fatta carico di mantenere la pace nell'Occidente per oltre cinquant'anni, versando sangue, si, ma sangue avverso, oltre che il proprio. La politica interventista, repressiva, dell'intrigo è stata il prezzo da pagare per consentire a noi occidentali di salvaguardare il nostro stile di vita, la nostra ricchezza, la nostra pace. E' interessante vedere anche come alcuni grandi presidenti americani, uno su tutti John Kennedy, siano stati in realtà i più pericolosi per il loro paese e per il mondo intero. Basti pensare alla Baia dei Porci, ai 13 giorni che rischiarono di far scoppiare la terza guerra mondiale, al Vietnam, ed al seme reazionario che porto allo "scoppio" del '68. La politica aperta, del dialogo, del patteggiamento, di JFK è stata quanto di più pericoloso si sia visto dal dopoguerra ad oggi. Ecco perchè personalmente temo che Obama, con i suoi grandi ideali, possa essere frainteso e confuso per debole da chi non aspetta altro che interrompere l'egemonia capitalista che oggi regola il mondo; quell'egemonia che, sebbene ampiamente criticabile dal punto di vista etico, mantiene l'ordine delle cose, mantiene l'equilibrio, mantiene la pace sul territorio occidentale. A chi non sopporta più lo stato passivo del cittadino di fronte ai grandi problemi, a chi sente di essere escluso dai "grandi giochi", a chi si sente schiacciato dalla casta dei poteri forti dico: state tranquilli, perchè non ci sarà rivoluzione che vi porti nella stanza dei bottoni. Non ci sarà Obama che vi renda pienamente partecipi delle decisioni scomode, impopolari, dure, che ogni leader è costretto a prendere. Ci sarà sempre qualcuno che comanda, ed è necessario che la sua mano sia ferma, che la sue intenzioni siano nobili, che le sue azioni siano spesso ingiuste. Tra i compiti del leader deve esserci quello di sollevarci dal lavoro sporco, perchè sarà lui a svolgerlo per noi. Ecco, speriamo che Obama, dietro alla sua rassicurante e popolare aurea messianica riesca ad adempiere, dietro alle quinte, a tutte quelle operazioni sacrificali di cui tutti abbiamo bisogno. Il più grande errore di Bush Jr. non è stato quello di attaccare nazioni sovrane senza forti motivazioni, quanto quello di non essere stato abbastanza abile da trovarne di demagogiche e comprensibili alle masse e far credere al mondo che quei conflitti erano necessari. Ovvero, necessari lo erano, ma non da un punto di vista comprensibile ai più, non da chi fa la spesa tutti i giorni, non da chi crede che una bandiera colorata possa davvero aiutre a mantenere la pace.






JS




Tuesday, November 04, 2008

Go.


A poche ore dal verdetto devo esprimermi. Tutti gli approfondimenti a domani.

Per adesso posso dire che, in fondo, mi piacerebbe che vincesse lui.

Sunday, November 02, 2008

Introducing Business of Green


Non è per una questione di moda, ma per una questione di urgenza che ho deciso di dare voce alla tematica del Green Thinking. Dove per Green non si intende la sterile accezione di "ecologia" (ricordate di non usare mai questo termine in presenza di addetti ai lavori) e nemmeno di Greenpeace, piuttosto si rflette sulla sterzata che l'umanità si sta preparando ad affrontare. Qualche giorno fa ho avuto il piacere di conoscere Alberto (qui non si fanno i cognomi), di "The Hub", un organizzazione semi-non-profit, che ha come obiettivo la creazione di spazi di lavoro condivisi nelle città più frizzanti del mondo, dove si paga il tempo e non lo spazio utilizzato. Questi spazi, hub appunto, rappresentano la materializzazione di un sentimento più grande che lui stesso definisce "grande convergenza" tra persone che vogliono cambiare il mondo mediante la "third way". Oggi il mondo del business si muove secondo due metodologie: quella del capitalismo aggressivo, orientato al profitto e pronto a calpestare qualsiasi diritto e quella del non-profit, della filantropia, che però non produce utile. Loro, a The Hub, perseguono la "third way", quella che mixa sostenibilità e rispetto ad una ragionevole rincorsa del profitto, tesa a costruire soltanto situazioni di win-win. Si ipotizza che l'umanità, nei suoi prototipi di punta, sia ormai pienamente cosciente che la ricerca del benessere globale non sia più una bella utopia ma una stringente necessità per garantire al pianeta un futuro evolutivo. Altrimenti si rischia l'implosione. Tengo a cuore sottolineare che non è detto che il presare green precluda logiche di profitto, anzi, per contro, è molto concreta la possibilità che questo ragionare collettivo (che di comunsta non ha proprio niente, sia chiaro) sia la più grande opportunità di business per gli aniticipatori che di questi tempi stanno presidiando i futuri spazi più strategici. Come ripeto spesso, dopo questo periodo duro e tumultuoso, quello che nascerà sarà un mondo nuovo, dove sarà necessario assecondare lo sviluppo di quelle nazioni che stanno vivendo oggi il pieno sviluppo, attraverso la collaborazione e lo sfruttamento delle sinergie globali alimentate dalla velocità di interscambio di informazioni e conoscenza. Le barriere geografiche sono già cadute da un pezzo, ma il modo di ragionare no. Ecco sta proprio qui il punto.


La rubrica Business of Green vuole essere uno spazio di aggiornamento su quanto succede nel mondo del green thinking e sarà curato da Andrea Maggiani, caro amico ed insider, in quanto nuova leva di Climate Partner, società multinazionale che opera nel campo della sostenibilità attraverso carbon footprint, progetti di certificazione su misura e quant'altro.


JS
La crisi non è Green

In un momento così delicato della nostra economia mondiale sempre più globale e interconnessa sembra che non ci siano più ancore di salvezza. Un tempo ,si diceva se la borsa va male c’è sempre il mattone , oggi, dopo la crisi dei mutui americani e il crollo del mercato immobiliare nelle principali città degli U.S. , prime fra tutte Los Angeles e Miami, anche questa certezza è venuta meno.
In molti suggeriscono di avere fiducia e di continuare a credere nella ripresa economica ma gli scettici credono che il peggio debba ancora venire.

Il Finanziere Gorge Soros in una recente intervista ha individuato il suo personale antidoto: investire nelle nuove “Tecnologie verdi”. Sottolineando come per risolvere problemi come Global Warming sarà necessario investire molto nei prossimi 25 anni in innovazioni e soluzioni tecnologiche sostenibili per avere più energia verde, più efficienza energetica e quindi meno emissioni di anidride carbonica.
Sono in molti a credere in questa strada ma ancora troppo pochi ad avere il coraggio di intraprenderla.
AM